04/06/2011 11:10
IL MESSAGGERO (M. CAPPELLINI) -
Forse non basterà a consolare Daniele De Rossi per essere finito dentro uninchiesta in cui nulla centra, quella sulle partite di calcio truccate, ma la sua storia potrebbe quantomeno avere un valore pedagogico. Potrebbe cioè suggerire a un pubblico ampio, comè quello dei tifosi e degli appassionati di calcio, un modo diverso di accostarsi al genere giudiziario che più ha spopolato negli ultimi anni: lintercettazione telefonica. È infatti a causa di una telefonata che il nome di De Rossi sè affiancato a quello degli indagati. Telefonata due volte malandrina. In primo luogo perché gli stessi inquirenti non ritengono attendibile il portiere Marco Paoloni, lui sì indagato e poi arrestato, quando alla cornetta millanta di poter contare sul «gancio» di De Rossi per condizionare il risultato di Genoa-Roma. E soprattutto perché questa conversazione, nellordinanza che ha portato allarresto della presunta cricca di manipolatori del pallone, semplicemente non cè. Fa parte di materiale dinchiesta parallelo, se così vogliamo definirlo: sono infatti migliaia le ore di registrazioni telefoniche su cui i pm hanno costruito la loro indagine. Nellordinanza, correttamente, hanno inserito solo quelle che a loro giudizio hanno rilevanza penale.
Che servono cioè a sostenere e dimostrare la tesi dellaccusa. Per nessuna ragione, dunque, il contenuto di tutte le altre conversazioni avrebbe dovuto filtrare allesterno. Il nome di De Rossi è invece sfuggito alle maglie, sempre troppo larghe, che dovrebbero custodire gli atti istruttori. Tutti i giornali, compreso il nostro, che hanno dato conto della fuga di notizie si sono affrettati a sottolineare linattendibilità di Paoloni. Ma siamo onesti: in questa situazione lunico vero scudo di De Rossi è stata la sua popolarità, laffetto e la stima di cui gode presso i suoi tifosi e gli appassionati di calcio. E qui sta appunto il valore pedagogico di questa vicenda. Perché la storia recente racconta una verità incontestabile. Se al posto di De Rossi ci fosse stato un altro, e non un personaggio amato come lui, che per molti è un vero e proprio idolo, la reazione di gran parte dellopinione pubblica sarebbe stata ben diversa. Lo scetticismo e lindignazione con cui è stata accolta lintercettazione che lo ha chiamato in causa avrebbero lasciato il posto al sospetto, alla maldicenza, quando non direttamente alla presunzione di colpevolezza. Le intercettazioni - fondamentale strumento di contrasto alla criminalità, lo ribadiamo per evitare equivoci - si sono troppo spesso trasformate in un perverso genere giudiziario-giornalistico, capace di abbattersi sugli indagati (e spesso anche sui non indagati) con la violenza di una sentenza anticipata grazie al potere di suggestione che hanno sullopinione pubblica, alla quale taluni pm troppo allegri e troppi opinionisti interessati hanno fatto credere che nulla sia più trasparente e oggettivo delle parole captate alla cornetta. Naturalmente, invece, le intercettazioni non hanno in sé nulla di oggettivo. Quasi mai sono una prova, nel senso tecnico del termine. Le ipotesi di reato andrebbero sempre verificate incrociando più fonti e strumenti, a tutela dei cittadini e di uno Stato di diritto degno di questo nome. Nel caso di De Rossi questa non oggettività delle intercettazioni è saltata agli occhi anche del lettore più distratto. Ma per tutti gli altri? Per loro non si è attivato questo scudo.
È verosimile ritenere che siano decine, se non centinaia, i nomi di calciatori, presidenti e addetti ai lavori citati dagli accusati nel corso delle chiacchiere telefoniche che, al momento, sono fuori dagli atti ufficiali. Forse il caso De Rossi eviterà che altri subiscano la medesima sorte. Finora, purtroppo, non è andata così.
Coincidenza vuole che il caso De Rossi sia esploso proprio nel giorno in cui è stato rinviato a giudizio Paolo Berlusconi, accusato di aver riciclato sui giornali il nastro dellintercettazione in cui lallora segretario dei Ds Piero Fassino, parlando con Giovanni Consorte della scalata Unipol a Bnl, pronunciò la famosa frase «abbiamo una banca». Anche quella era una intercettazione fuori dagli atti. Non conteneva alcuna notizia di reato e non avrebbe dovuto finire da nessuna parte, tantomeno sui giornali. Se ci finì per colpa di Paolo Berlusconi, lo diranno i giudici. Non cè invece bisogno di una sentenza per capire che quella conversazione privata fu usata come arma impropria di scontro politico e di regolamento di conti. Ma finora hanno pagato dazio anche i tanti, famosi e no, le cui conversazioni sono finite sì negli atti ufficiali, però del tutto indiscriminatamente. Troppi pm usano infarcire le loro ordinanze di brogliacci telefonici senza alcuna attenzione né alla rilevanza penale né al più elementare rispetto della privacy. La speranza è che lincidente capitato a De Rossi suggerisca a molti una lettura più prudente delle vicende giudiziarie imperniate sulle intercettazioni. E magari con più risultati di quanti ne abbia ottenuti finora la voce minoritaria dei garantisti rimasti in questo paese.