Partiamo con le origini della tua carriera, nel 1993, anno del tuo esordio in Serie A. Tutto iniziò con il ruolo di trequartista o seconda punta.
“Sì. Ero giovane, di fronte a me avevo tanti attaccanti. C’era Balbo e dal ’94 arrivò anche Fonseca. In quel periodo mi piaceva mandare in porta i miei compagni. Era mia premura fargli fare più gol possibili. Mi divertivo più a far segnare loro che farli io”.
Poi è arrivato Zeman, che ti ha spostato nella posizione di esterno offensivo, a sinistra, nei tre di attacco.
“Già, ma quello era un ruolo che si basava molto sul suo sistema di gioco, dove avevo dei compiti leggermente diversi. Bisognava lavorare ancora di più per tutta la squadra. Fondamentalmente il mio calcio era uguale, ma da esterno ero più portato all’uno contro uno sulla fascia e a saltare l’avversario. Mi sono divertito molto in quelle due stagioni”.
E poi con Capello sei passato attaccante.
“Sì, dal 2001/2002 in poi ho iniziato ad essere schierato spesso come prima punta assieme a Cassano o a Batistuta. Mi sono trovato subito a mio agio. Giocando vicino alla porta hai più possibilità sia di fare gol sia di fare assist ed è una cosa che mi è piaciuta sin dall’inizio. Con Spalletti, poi, c’è stato il cambio di ruolo definitivo”.
E cosa è cambiato?
“Erano due sistemi di gioco diversi. Con Capello quando giocavo con Cassano spesso eravamo due trequartisti mascherati con licenza di spostamento e libertà di gioco. Nel 4-2-3-1 di Spalletti, invece, ho fatto la prima punta fissa, ma sempre in una veste atipica”.
Come è stato reinventare il tuo stile di gioco?
“Non me lo sarei mai immaginato di fare il centravanti il carriera, non pensavo di avere le caratteristiche adatte. Fortunatamente, però, è andata più che bene. Con Spalletti ero libero di muovermi ed è stato il ruolo in cui mi sono trovato meglio in carriera”.
Se potessi tornare indietro ti piacerebbe poter fare il centravanti da inizio carriera?
“Sì, se potessi scegliere sì”.
Quindi cambieresti volentieri il gusto che provavi a fornire assist agli esordi, con quello di fare gol degli ultimi anni…
“Sono momenti: quando cresci acquisisci esperienza, la consapevolezza dei mezzi che hai. Sono fasi diverse della mia carriera, non posso paragonarle”.
Quante cose hai reinventato nella tua carriera?
“Non saprei, tante cose negli anni sono cambiate, mentre con altre mi trovo meglio e le utilizzo più spesso: tipo il modo di calciare i rigori”.
A proposito, hai segnato circa 80 gol su rigore in carriera e molti considerano il lato alla destra del portiere il tuo preferito. È così?
“In genere sì, mi viene più facile calciare con l’interno piede a incrociare. Poi ho segnato in tanti altri modi…”.
Ce li racconti?
“Qualcuno anche aprendo il piattone. Altri con l’esterno collo, di potenza, verso la sinistra del portiere, tipo nella lotteria dei rigori contro l’Arsenal. Certo, quest’ultima soluzione è un po’ rischiosa e difficile, se la prendi male mandi la palla in curva”.
E poi c’è anche il cucchiaio…
“Ah sì, me l’ero dimenticato…(ride, ndr)”.
Lo stile dei calci di rigore si può migliorare in allenamento?
“No. Calciare in allenamento o in partita sono due cose ben differenti. Durante il match entra in gioco la testa, la pressione: ci sono tanti altri aspetti e responsabilità. Molti dicono che è semplice calciare i rigori, ma quando stai lì davanti non è così, non è per niente facile. La porta diventa davvero più piccola”.
Come scegli l’angolo?
“Prima di calciare penso a un’opzione, poi mentre l’arbitro prende il fischietto capita di valutare altre tremila soluzioni, cambi troppe volte idea. Ma il calcio di rigore è soprattutto concentrazione, devi partire con l’intento di tirare da una parte e basta”.
Tornando al cucchiaio, lo fai più per stupire il pubblico o più per spiazzare il portiere?
“Per me è come se calciassi di piatto. L’importante è che entri la palla. Il gesto tecnico ovviamente è diverso, più difficile, più bello. È una cosa istintiva. Una cosa che faccio anche in partita, in mezzo al campo. In allenamento mi capita di fare uno scavino, così, solo per fare un passaggio. Mi viene spontaneo, non ci sto a pensare, non è per innervosire l’avversario”.
Ti ricordi il primo rigore che hai segnato in quel modo?
“Certo: Roma-Bologna, maggio 2000, a Pagliuca, sotto la Curva Nord. Fu quasi un riscaldamento per Euro 2000. Poi ce ne sono stati anche altri. Per esempio un portiere rimase fermo e me lo bloccò (Sicignano, ndr). Ci rimasi male lì per lì, ma ripeto: per me il cucchiaio è un modo come l’altro di calciare, non lo faccio per prendere in giro il portiere. È esecuzione”.
Cosa cambia invece quando utilizzi il cucchiaio dalla distanza?
"Quello è più complicato, devi dosare la forza, capire se il portiere esce dai pali. Sono situazioni che nascono in quel momento, intuizioni”.
Il primo fu contro il Parma, nel '97-98…
“Sì, me lo ricordo benissimo: a Buffon. Ero lanciato a rete da centrocampo e già ci avevo pensato mentre correvo. Mi dicevo “se resta fuori provo a scavalcarlo”. Ci riuscii, col sinistro”.
Il sinistro, appunto: hai fatto tanti gol fantastici col mancino, eppure non è il tuo piede preferito.
“Sai perché? Perché non ci pensi. E forse ti coordini meglio. E poi quando arriva la palla lunga da calciare al volo, hai il tuo piede preferito di appoggio. Quando uso il destro forse sono troppo sicuro di riuscirci. Col sinistro è diverso, tiro in modo spensierato, non ho troppe aspettative, ma in realtà devo concentrarmi di più per far bene. E ogni tanto entra”.
L’hai allenato tanto in carriera il sinistro? Ti sei mai fermato a fine allenamento per migliorarlo?
“No. Nelle giovanili mi insegnarono la tecnica con tutti e due i piedi e poi sono andato in autonomia”.
Quanto è importante l’allenamento rispetto al talento?
“Direi 50 e 50. L’allenamento è fondamentale per tenersi in forma. Devi essere bravo a dosarti. Spesso devi essere più bravo di testa, che fisicamente”.
Quanto c’è di istintivo e quanto c’è di ragionato nel tuo gioco?
“È tutto istinto”.
Scusa, quando fai un lancio di prima non pensi di trovare lì pronto un compagno?
“Meglio non pensare troppo. Deve esserci intesa. Sapendo come gioco, il compagno sa dove andare. Se giocassi con uno come me, saprei dove correre. Come faceva Perrotta, per esempio: io conoscevo la sua forza di inserirsi e lui aveva capito il modo in cui giocavo. Fu facile per entrambi”.
La tua esultanza preferita?
“Il dito in bocca. Ormai è un mio tratto distintivo, non posso più cambiarlo. Da quel Roma-Chievo del 2005 non l’ho mollato più. Volevo iniziare a farlo per Ilary in realtà, che sta sempre con il dito in bocca. Poi è diventata un’esultanza per tutti e tre: Ilary, Cristian e Chanel”.
Il gol non segnato che avresti voluto segnare?
“Domanda difficile, fatemi pensare... In un Roma-Juventus del 1997/98 Peruzzi mi fece una doppia parata imbarazzante. Puro istinto: mi è rimasto impresso”.
Parliamo di un altro dei tuoi colpi preferiti: il tacco. Lo hai fatto praticamente in tutte le parti del campo.
“Anche quello è istintivo, esteticamente è più difficile farlo, però è una qualità che spesso sfrutto a mio vantaggio: a volte è più facile mandare un compagno in porta di tacco o di esterno piuttosto che di interno, ma è una cosa che penso in una frazione di secondo”.
Ti dispiace non averlo mai utilizzato in un gol?
“No, sinceramente non ho mai pensato “ora segno di tacco”. È una cosa che capita raramente in carriera e quando sono lì, davanti alla porta, preferisco fare gol, non penso a farlo di tacco solo perché è più bello”.
Il difensore più ostico che hai incontrato in carriera?
“Non ce n’è solo uno in particolare, ce ne sono alcuni stile mastini, stanno lì dietro e ti riempiono di botte tutto il tempo”.
Un esempio?
“Dire Vanigli sembrerebbe scontato, solo perché mi sono infortunato seriamente dopo il suo intervento. Però fu un martello: per i primi sei minuti venne solo da me. Ed era nella stessa settimana in cui avevo fatto vedere le caviglie massacrate in un servizio televisivo”.
Cioè in quella partita hai subito avuto la percezione che non ti mollasse un attimo?
“Sì, per quello quando mi chiamò per scusarsi lì per lì mi arrabbiai, mi è dispiaciuto aver reagito così, anche perché sono cose che in alcune partite capitano: gli infortuni ci possono stare. Furono i sei minuti prima che mi diedero fastidio. Fece più di tanti altri difensori che in carriera ho incontrato. Montero, per esempio, era uno che in un suo momento di pazzia poteva farti l’entrata eclatante, ma durante la partita era più leggero. Per Tudor, Materazzi e Cannavaro vale lo stesso discorso: erano più tranquilli durante il match, ma la zampata te la davano al momento giusto. Dietro sentivi l’aria muoversi e capivi che stavano arrivando. A volte, se hai esperienza, in casi come questi provi a saltare prima e cerchi di evitare il contatto, conoscendo chi hai dietro. Non lo facevano con cattiveria, ma certe botte se sono date bene si sentono”.
Scegli la partita che hai giocato meglio in carriera.
“Credo sia Roma-Juve 4-0, con Cassano azzeccammo quasi ogni passaggio. Però aspetta, voglio pensarci bene. C’è n’è un’altra in cui mi riuscì tutto…”.
Quale?
“Roma-Empoli, sul neutro di Palermo. Due gol, uno di testa e uno in pallonetto, di interno, a superare il portiere. Giocai davvero bene. Ora dovrei pensarci meglio, riguardarmi altre partite. Però così, di primo impatto, sceglierei queste due che ho appena detto”.
Il tuo match preferito dell’anno dello Scudetto?
“Roma-Parma l’ho già detta troppe volte, vero?”.
Sì, ne scegliamo un’altra?
“Ok...Ma parliamo di un match personale o del mio preferito in generale di quella stagione?”.
In generale, prendine uno: quello al quale sei più legato”.
“Juve-Roma 2-2”.
Quel Juve-Roma in cui sei stato sostituito da Nakata?
“Lo so, non è stata affatto la mia miglior partita, anzi. Però quello è stato il match Scudetto. Poi le altre due gare fondamentali forse sono state a Parma e Bologna, a cavallo del girone di andata e ritorno. Con i gialloblù sbagliai anche un rigore al primo tempo tirandolo sul palo e col Bologna non giocai: ma quelle sfide al giro di boa furono partite chiave. Al termine della seconda sfida in Emilia pensai “forse questo è l’anno nostro””.
Hai sempre detto che quello al volo contro la Sampdoria e i due cucchiai dalla distanza contro Lazio e Inter sono i tuoi preferiti: confermi?
“Sì, sono sul podio, i primi tre: ma ce ne sono tanti altri eh”.
E allora scegline un altro, tra i tanti.
“Dovevate farmi studiare però! Vediamo…direi Roma-Udinese, 2001, cross di Cafu. Sempre di sinistro, vedete? (ride, ndr)”.
Con l’Udinese ci fu anche un altro grande gol, col sinistro, nel ’98, anche quello col mancino.
“Sì, ma a livello di realizzazione era molto più difficile quello dell’anno dello Scudetto”.
C’è un giocatore al quale ti ispiravi e nel quale ti rivedi ora?
“A dire la verità, io da piccolo guardavo solo Giannini, era un modello per me. Ora, però, non posso dire di rivedermi in lui: siamo due tipologie di giocatori diversi e anche il tipo di calcio è cambiato. Mi piaceva come giocava, come si muoveva. Era il Capitano, un idolo: lo vedevo con altri occhi”.
Il miglior consiglio che hai ricevuto in carriera?
“Il rispetto, portare rispetto a tutti”.
Chi te lo ha dato?
“Mia madre e mio padre e mi ha aiutato moltissimo”.
Il campo più difficile sul quale hai giocato?
“Quello della Reggina, il terreno di gioco spesso era impraticabile”.
Come ambiente, invece?
“Brescia e Bergamo: zone calde, soprattutto contro noi romani. Aspetta, non dimentico Livorno: ti massacrano tutta la partita, non so perché. Nel 2007 avevano fatto un coro solo per me, durava tutta la partita. Mi sono innervosito, era un momento particolare e dopo l’espulsione me la sono presa platealmente con Vito Scala, cosa che non rifarei mai più”.
Chi è Vito per te?
“Una bella percentuale di tutto quello che ho fatto, si occupa di ogni mio aspetto fisico e non. Per un calciatore è importante avere una persona così al suo fianco: si rende molto di più, perché hai la mente libera. Vito mi aiuta davvero tanto. Ha una testa superiore agli altri, veramente intelligente su tutti gli aspetti. È davvero una buona fetta calcistica della mia vita. È un fratello, anche se è più vecchio, ormai troppo… (ride, ndr)”.
Dopo tutti questi stili di gioco della tua carriera che abbiamo ripercorso, in quale campionato estero ti saresti visto meglio?
“In Spagna, senza dubbio”.
Lo dici perché in passato ti corteggiò il Real Madrid?
“No no, il mio stile di gioco è molto simile a quello spagnolo: più tecnico che fisico, se paragonato alla Premier e alla Serie A. Rispetto all’Inghilterra, la Spagna pende più verso il calcio giocato: c’è più divertimento. Te lo dimostrano anche quando ci vai da avversario: se fai un bel gioco o un bel gesto tecnico ti battono le mani”.
A proposito, sei uscito anche tra gli applausi al Bernabeu una volta: ci racconti le emozioni che hai avuto?
“Sì, fu una sensazione fantastica. Ora anticipo una domanda, perché tanto già so che arriverà a breve: quello a Madrid contro i il Real è il gol europeo al quale sono più affezionato…”.
Grazie, in effetti sarebbe arrivata come domanda. Ne hai segnati due, uno nel 2001 e uno nel 2002: di quale parli?
“Il primo, quello nel 2001. Anche se fece tutto Candela a dire il vero…”.
L’ultima: con che sentimento vorresti essere ricordato dai tuoi avversari quando deciderai di smettere?
“Non sta a me decidere, lascio a loro la scelta. Mi basterebbe il rispetto. La cosa più importante per la carriera di un calciatore”.
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