Ago capitano di una generazione. Aprì le ali 30 anni e un giorno fa

14/01/2010 09:59

Nel maggio del 1979, mentre i suoi compagni e l’intera Roma giallo-rossa festeggiavano il pareggio contro l’Atalanta che valeva la salvezza, era rientrato negli spogliatoi infuriato: «Cosa festeggiamo? Questa gente merita altre soddisfazioni. Di cosa siamo contenti?». Sognava i grandi spazi “Ago”, un suo pallino era quello di realizzare un viaggio in Canada, esplorare quel paese immenso, protetto dall’anonimato, senza firmare autografi, senza pensare a nulla. Aveva l’assoluta necessità di staccare la spina, perché quando Agostino era “inserito” diventava corrente pura. Tutto quello che riguardava la Roma lo riguardava da vicino, dalle magliette che qualcuno lasciava sul pavimento degli spogliatoi (mentre lui piegava anche i calzini), al nuovo compagno che cercava casa (“ti aiuto io a trovarne una vicino Trigoria”).

Era nato per essere un leader, per dare l’esempio e Liedholm se n’era accorto da un pezzo, sin dalla finale del campionato primavera del 1974. La Roma giocò la gara decisiva a La Spezia, contro il Milan. Di Bartolomei gioca con il numero 8 e la fascia di capitano al braccio. Si vince per 4-0, poi la squadra si trasferisce in un ristorante per il festeggiamento ufficiale. «Alla fine della cena – ricordava LiedholmAgostino si alzò e fece un discorso per ringraziare tutti i compagni, il presidente Anzalone e tutti noi che eravamo andati a vedere la finale. Parlò con grande disinvoltura, mostrando un’esperienza e una maturità non comuni per un ragazzo di appena diciannove anni. Io ascoltai con attenzione, e dentro di me pensai: “Questo è un vero capitano”».



Il 13 gennaio 1980, la Roma deve rendere visita al Milan. Santarini non scende in campo e Liedholm, da sempre attento ai segni del destino, vede l’occasione per battezzare Di Bartolomei capitano della Roma in quello che era stato per anni il suo stadio. E’ una coincidenza troppo grande per non essere studiata, cercata, voluta. Liedholm vedeva in Di Bartolomei una delle sue incarnazioni, vedeva in lui il capitano perfetto. Trenta anni e un giorno … tanto è passato da quel 13 gennaio, da quel pezzo di stoffa che si posava sul braccio del capitano più sacro alla memoria dei tifosi romanisti. Tutto il passato tornava in quella gara incastrandosi in

un gioco di specchi perfetto, miracoloso. Di Bartolomei diventa capitano della Roma contro il Milan, la squadra a cui si era negato nel 1968, quando l’osservatore Passalacqua, aveva cercato di tesserarlo per la squadra rossonera. Ago rifiutò, come aveva rifiutato la Lazio, rifiutò infischiandosene dei soldi e facendo “incazzare di brutto” un mucchio di persone che ai soldi pensavano e come: «Quelli della mia società, l’OMI ci rimasero male, volevano cedermi a tutti i costi. Un inferno, non avevo ancora tredici anni e mi sentivo un fenomeno da baraccone. Quando ripresi a giocare scoprii che ormai li avevo tutti contro».



Quel Milan–Roma viene arbitrato da Bergamo, che, ironia della sorte annulla al Milan due reti per fuorigioco.

Il solerte ingranaggio che implacabilmente l’anno dopo avrebbe infranto il sogno scudetto della Lupa

annullando la rete di Ramon Turone, rigettava in gola l’urlo di San Siro, roba da non credere. Del resto Agostino non poteva perdere quella gara, doveva “spiegare le ali e volare” e dove lo avrebbe portato quel volo,

anche se non poteva saperlo, lo aveva davanti agli occhi. Nelle file del Milan, con lo scudetto sulle maglie giocava Aldo Maldera, destinato, tre anni più tardi a mostrare un altro tricolore sul petto, quello di cui Agostino

sarebbe diventato gran timoniere. Di Bartolomei, dunque che a San Siro si veste dei gradi di capitano e vede

il suo scudetto, come in un meraviglioso sogno premonitore, una profezia fatta di segni, tessuto e stoffa.



A distanza di trent’anni, capita ormai, sempre più spesso, di raccontare la sua storia, la sua immensa classe

a giovani romanisti che non hanno vissuto Di Bartolomei sul campo. Ci limiteremo a dire che Ago è stato

il capitano di un’idea,
di un modo d’intendere il calcio e la vita. Per questo ancora oggi il suo ricordo, la sua immagine, la sua potenza di gioco (e di tiro), trasmettono emozione, vitalità, e in ultima analisi lo stile Roma nella sua incarnazione più pura, meno disposta a scendere a compromessi.



Mi manca, tra le tante cose, anche quel suo modo di parlare a mezza bocca, quasi trascinato, che sapeva essere a seconda dei casi discreto e puntiglioso, ironico e pacato. Tutta una generazione di romanisti, trenta anni (e un giorno) fa trovava il suo capitano, anzi meglio, si rispecchiava e si riconosceva nel suo capitano... era il 1980, cantavamo con John Lennon, vestivamo le maglie a ghiacciolo e sognavamo  di essere Agostino.