30/04/2010 11:19
anni, cambia la Roma, si rivoluzionano i moduli ma Simone Perrotta è sempre lì al suo posto. Anche domani. Titolare sempre, o quasi, chiunque sia lallenatore. Succede da quasi sei anni. Era lestate del 2004 quando arrivò dal Chievo dopo essere passato anche per Reggina, Juventus e Bari. E capitò nellanno peggiore,
quello dei 5 cambi in panchina e della B evitata per un pelo. Ma già in quella stagione, in cui tutto andò storto e anche lui non riuscì a rendere al meglio, si capì che Simone da Ashton (anche se solo di nascita) era uno che aveva carattere.
Nel febbraio del 2005, quando la Roma traballante di quei tempi si affidava a Totti, Montella e Cassano per risolvere le partite, lui, in conferenza, si fece sentire: «In campo si va in undici e non in tre. A me sembra che qui si vinca in tre e si perda in otto. Sinceramente non ci sta bene. Qui si soffre tutti e cè bisogno di tutti». Una bella dimostrazione di personalità. Quella che gli è servita per ricacciare le critiche di quei giorni e diventare il pilastro di una squadra da scudetto. Un leader poco appariscente, silenzioso. Ma neanche poi tanto perché,
in questo campionato più che mai, quando in campo cera da farsi sentire a parole e nei fatti, lui cera sempre.
Un esempio su tutti il duello con Sissoko a Torino contro la Juve, quando non ebbe il minimo timore ad affrontare lavversario. Tra i due furono scintille e alla fine stravinse Simone con tanto di tunnel sul maliano e i romanisti a spellarsi le mani per applaudirlo. Non è stato un caso isolato, perché Simone è sempre lì quando cè da difendere un compagno o quando cè da arrabbiarsi con lui (vedi la baruffa di domenica con Vucinic).
Unautorevolezza conquistata giorno dopo giorno. Oggi, con le sue 182 presenze e 31 reti in campionato, Supersimo (nel frattempo gli sono stati riconosciuti i superpoteri) allinterno dello spogliatoio ha il suo peso. Così come lo ha in campo. Anche in questa stagione un po tribolata dal punto di vista fisico: si fece male nel ritiro di Riscone e poi si portò dietro dei fastidi. «Dipendeva dalla concomitanza di un byte dentale e da un certotipo di plantare che indossavo - ha spiegato qualche tempo fa -. Questo comportava un schiacciamento toracico che mi mozzava il fiato. Ora però è tutto risolto». Vero. E anche grazie al suo ritorno al top, nonostante qualche notte insonne a inizio anno per larrivo del secondogenito («mia moglie mi dice di rimanere a dormire ma listinto paterno mi induce ad alzarmi»), la Roma è riuscita a piazzare una rimonta da record culminata
con la vittoria nel derby. E chi era il capitano in quella occasione dopo luscita di Totti e De Rossi? Proprio lui.
Ed è stata una delle emozioni più grandi. Come quella del gol a San Siro nella finale di Coppa Italia («E il più bello della mia carriera. Ce la stavamo facendo sotto, per fortuna abbiamo portato la coppa a casa»).
Oppure come quella di vincere un Mondiale da protagonista, dopo aver rischiato di non prendervi parte. Furono le ultime partite di quel campionato a convincere Lippi a portarlo in Germania e ora, quattro anni dopo, la storia si potrebbe ripetere. Come? Con un finale alla Perrotta. Con fiato, muscoli e incursioni. Quelle che lo hanno reso unico in Italia, che hanno dato vita ad un nuovo ruolo, ad un modulo ormai imitato in tutto il mondo. A Parma lui ci sarà, dietro a due punte oppure a tre. Totti (o Toni), Vucinic e Menez: un altro tridente, come sei anni fa. E lui dietro a correre. Perché «in campo si va in undici e non in tre».