Il bandito e il campione

20/05/2010 12:55

momento della dissolvenza. Flashback, salto indietro nel tempo fino al 22 agosto scorso. A 24 ore dalla prima

partita di campionato la difesa della Roma è un’incognita totale. Sicuro di giocare titolare a Marassi contro il

è solo Philippe Mexes
. E accanto a lui? L’unica possibilità è quella di schierare Andreolli, perché Juan è ancora alle prese con uno dei tanti problemi fisici che ne hanno condizionato praticamente tutta l’esperienza romana. E anche la stagione che sta per cominciare sembra destinata a proseguire allo stesso modo. 



Nessuno in quel momento può immaginare che nel giro di 9 mesi la difesa romanista diventerà un blocco granitico, la migliore del campionato. Cosa è successo nel mezzo? Tante cose, ma il primo punto di svolta arriva proprio il 22 agosto. Quel giorno la Roma ufficializza l’arrivo in prestito dall’Inter di Nicolas Burdisso, che lascia Milano e va direttamente a Genova per unirsi ai nuovi compagni. Non solo, deve anche giocare, Spalletti lo vuole buttare subito nella mischia. Ecco che allora da Roma parte una maglietta con il suo nome e il numero 29, quello che l’argentino indosserà per tutta la stagione. La partita finirà male, con la vittoria del grifone anche per colpa dell’arbitro, ma Nicolas è uno dei migliori in campo. Alla seconda di campionato arriva un’altra sconfitta.

Dopo il ko con la se ne va Spalletti, e nella bufera di quei giorni la presenza di Burdisso passa quasi inosservata. Si va a Siena e il giorno del debutto di Ranieri è anche quello della prima di Burdisso e Juan insieme. Anche se in quella occasione il "bandito" viene dirottato sulla fascia destra. Per vedere all’opera la coppia sudamericana al centro della difesa bisogna aspettare il 23 settembre e la partita di Palermo (non fa molto testo il quarto d’ora finale di quella precedente con la ). Sotto il diluvio la Roma rimedia tre gol, eppure quel giorno Ranieri comincia forse a vedere la difesa del futuro.



Perché, se è vero che vanno ringraziati tutti i giocatori per il contributo dato alla causa comune (su tutti Mexes che ha accettato senza creare problemi di non essere più il titolare), è altrettanto vero che Juan e Burdisso sono stati il simbolo della rinascita della Roma. Che, prima di ritrovare brillantezza e fiducia, si è aggrappata ai suoi due pilastri. Senza andare a cercare chissà quali numeri della loro stagione, basta andare a vedere che, quando hanno giocato insieme, la Roma ha perso solo una volta, nella maledetta partita contro la Sampdoria. Una partita strana, per molti il miglior primo tempo giallorosso del campionato. Burdisso e Juan, il bandito e il campione. E quel "bandito" non è certo in senso spregiativo. Grinta ed eleganza, anticipi e  recuperi.

Due giocatori così diversi tra loro, eppure così complementari in campo. E fuori dal terreno di gioco? In comune hanno la grande riservatezza. Nessuno dei due fa la vita della star. Pochi amici ma fidati, poche parole ma che si fanno sentire. Del Nicolas extracalcistico negli anni all’Inter si era sentito parlare solo per la drammatica vicenda (per fortuna a lieto fine) della malattia che aveva colpito la figlia. Una storia di cui lui oggi non fa fatica a parlare. Alla piccola Angelina venne diagnosticata una leucemia. Lui non ci pensò neanche un attimo e mollò tutto per volare in Argentina e stare al suo fianco. Di quella terribile esperienza racconta: «Ho fatto semplicemente tutto quello che un genitore farebbe col proprio figlio. Ho scoperto un mondo che prima non conoscevo ». In quella occasione, il mondo per la prima volta scoprì in Burdisso un grande uomo. Che fosse un grande giocatore lo si sapeva invece già da tempo. Fin da quando, giovanissimo, lasciò la sua à (Altos de Chipion, nella provincia di Cordoba) per andare a Buenos Aires al Boca Juniors. Accanto a lui i genitori, che lo avevano avviato allo sport fin da piccolo. Il padre era insegnante di educazione fisica e a casa Burdisso (ha altri 4 fratelli, 2 maschi e 2 femmine) si praticavano tante discipline. Lo stesso Nicolas provò anche col nuoto e il basket. Ma la sua passione era il calcio, e al Boca, la squadra di Diego Armando Maradona, arrivò ben presto al successo.Il debutto in prima squadra avvenne nel 1999, quando aveva solo 18 anni, contro l’Instituto de Cordoba. Poi fu un susseguirsi di vittorie: 2 campionati argentini, 3 Coppe Libertadores, 2 Coppe Intercontinentali, il titolo Mondiale under 20 e l’oro Olimpico ad Atene. Poi la partenza per l’Italia a soli 23 anni.

Juan, invece, è arrivato nel nostro Paese nel 2007 quando di anni ne aveva 28. Il grande salto, però, lo aveva fatto nel 2002 quando aveva lasciato il caldo di Rio (la sua à), il Flamengo, il Maracanà, per andare nella fredda Leverkusen. In quei 5 anni si è conquistato una fama internazionale diventando punto fermo della Seleçao. Poi l’arrivo a Roma, dove fino a questa stagione non aveva brillato per colpa di una serie interminabile di infortuni che mai prima aveva accusato. La scorsa estate era sul punto di andare via, sembrava già tutto fatto per il suo passaggio al Real Madrid. Ma durante la Confederations Cup arrivò un altro crac, stavolta provvidenziale. Niente trasferimento, Juan resta a Roma. Evidentemente era destino. Se non fosse stato per quella lesione, la sua strada non avrebbe mai incrociato quella di Burdisso. E invece così si è formata una coppia perfetta, due giocatori che si completano. Due leader, anche se Juan ama ripetere che «sono i compagni a decidere. Si tratta di un’investitura del tutto naturale, non la si può pensare a tavolino, e comunque io non credo di esserlo». Sarà, ma con loro due la difesa della Roma ha cambiato volto. Non subito però, ci è voluto un po’.

Fino a dicembre in tutte la partite è arrivato almeno un gol. Poi col derby la svolta, che forse era già iniziata da qualche tempo. Dalla partita con la Lazio fino al termine del campionato, nella porta di Julio Sergio (altro uomo chiave della rinascita) sono stati raccolti solo 18 palloni. Ma, soprattutto,  quelli lì dietro hanno dato una sensazione di compattezza fuori dal comune. Anche quando gli avversari premevano come ossessi, vedi la trasferta di Firenze, la partita col Milan o quella con l’Inter o ancora quella di Parma. Per non parlare della prestazione al Bentegodi: imperiosa, sublime. E poi i loro volti tristi per l’inutile vittoria sul Chievo, ma al tempo stesso orgogliosi per quello che questa squadra è riuscita a fare. Anche grazie a loro. Grazie al Bandito e il Campione. Anzi, no: i due campioni. E si ritorna così a quel loro abbraccio di Verona. Si torna alla prima immagine del film romanista, che poi è anche l’ultima di una stagione arrivata ai titoli di coda. Ma la prossima è già pronta a ricominciare,  ancora più bella. To be continued...