Jeremy e Mirko, geni benedetti

20/05/2010 12:45

in questo campionato. Documentano, certo, illustrano, anche, ma nessuna cifra, di nessuna rimonta potrà mai rendere l’idea di quello che certi giocatori hanno regalato ai tuoi  occhi: si chiamano emozioni, nella più banale delle definizioni; vibrazioni se si vuole ricorrere a qualcosa di più ricercato; io preferisco chiamarle “variazioni sul tema”: della partita, del risultato, dello schema stesso che la squadra fa benissimo a seguire.  Vucinic e Menez, allora: quasi due emisferi di classe pura, mai del tutto addomesticabile, a diverse longitudini di talento. Sul meridiano di Vucinic si imprime uno sguardo apparentemente stralunato, come una terra giovane ed entusiasta dopo aver accettato recentissime cicatrici; su quello di Menez due occhi corrucciati ed ombrosi, come i francesi quando passeggiano da soli, o quando non inseguono sulla fascia, ma dagli l’occasione di ridere e non la smettono più.



Mi veniva da cominciare il pezzo con Rimbaud e Verlaine, poi ho pensato che i paragoni tra calcio e letteratura

sono sempre più numerosi e sempre peggio frequentati e allora ho lasciato perdere, anche perché se è

vero che sono due poeti, della filigrana più sottile, è altrettanto certo che di maledetto non hanno nulla, a parte

un certo autolesionismo del Menez che fu. Però, siccome prima abbiamo parlato di numeri, m’è venuto in

mente il titolo particolare di un romanzo che m’è piaciuto meno del titolo stesso: “La solitudine dei numeri

primi”.
Come a dire che c’è stata una rimonta, una rincorsa, un approdo purtroppo non definitivo, una striscia

infinita che cominciò con quel drammatico Roma- e queste cose le documentano le cifre che tutti


sappiamo. Poi ci sono i numeri primi, unici anche perché non s’incontrano mai; al massimo, si scambiano

divinamente il pallone
. Non lo so perché, ma certe partite mi rimangono negli occhi più di altre; in questo la graduatoria della memoria è quasi sempre diversa da quella dell’importanza. Fatto sta che si era in Monte Mario, verso la fine del primo tempo di Roma-Udinese. Si vinceva, si pensava al Borghetti dell’intervallo, i friulani giocavano aperto e simpatico, la Roma si mangiava ogni spazio. Venne giù da Plutone una palla a campanile, di quelle buone per gli arpioni di Luca Toni, già andato  in goal, che però era troppo avanti. C’era Menez nei pressi, ma quasi voltato: non so come fece ad angolare quella gamba in quel modo, da marionetta viva tutta molleggi e slogature; fatto sta che dopo un attimo quel pallone fu come se fossimo ritrovato

tutti fra i piedi: magicamente, inspiegabilmente, s’era accoccolato sul collo del piede dell’Olimpico tutto.



Nessun numero potrà mai spiegare un istante del genere. Sono gli scudetti, non scritti, della nostra emozione. Raccontati si però, e spero che chi legge provi lo stesso piacere di lo descrive. Quella sera stessa Vucinic decise di scrivere un personalissimo Bignami del goal: tre quelli che mise dentro, trecento circa ne meritò. Il primo fu un’idea che nacque con uno sguardo all’angolino e morì nello stesso identico punto con la palla, salutata dal ciao ciao triste di Handanovic, che si stropicciava gli occhi per lo stesso motivo nostro ma agli antipodi dello stato d’animo. Poi ci fu un rigore, sempre di quelli che svegliano di soprassalto i ragni accoccolati negli anfratti dove le cuciture della rete si fanno più spesse. A proposito, nemesi di risarcimento:

avete fatto caso che Mirko, dopo l’incomprensibile rigore da gambe molli con l’, da quel momento si veste da Caravaggio ogni volta che va sul dischetto?
Però quella sera non era ancora finita, perché i numeri primi decisero di incontrarsi per fare il quattro a due sulle cui ali decollarono le nostre ambizioni, con Roma-Inter di là da venire. Si perché a Menez non bastava mai, l’ultimo coniglio di un cilindro a doppio fondo lo estrasse proprio per Mirko: /Occhi di bosco, soldato del regno, profilo francese…/ e non era Andrea e non s’era perso, era sempre Menez, solo che pareva pure Cassius Clay, punge come un’ape-vola come una farfalla, era la piuma di un Forrest Gump più sveglio e più cattivo, erano circa centodiecimila occhi coccolati sotto una suola tacchettata. Se ne andò sulla fascia, con la noncuranza di una passeggiata distratta, che se i pantaloncini avessero avuto le tasche ci avrebbe infilato le mani fischiettando; non credo si tratti di  allucinazioni, se dico che mi sembra di aver visto la bandierina del calcio che s’inchinava facendo la riverenza a quel dribbling infinito.

Poi, approdato alle Colonne D’Ercole della linea di fondo, forse frastornato dall’orgasmo della Sud, decise di

riscrivere il finale dell’azione, di reinventare ancora una volta il campo e le sue misure: palla indietro, invece che in mezzo all’area, un giretto di caviglia fino al cuore dei sedici metri, dove Mirko sembrava capitato per caso ad impattare la sfera: i cronisti rampanti lo chiamano tap-in, a me piace dire che fu come quando la carezza di un pennello incontra la bellezza di un colore: goal, c’è forse un modo più efficace per dirlo? Io non credo, così come non credo che mai nessun difensore riuscirà a capire come faccia Vucinic ad andarsene sulla fascia sinistra fintando sempre dalla stessa parte e proseguendo su quel lato, come faceva solo Manè Garrincha, senza che mai riescano a prenderlo, quasi mai neppure a fargli male. Semplicemente, se ne va.



Se invece varia e rientra sul , allora difensore fatti il segno della croce, perché è segno che ha già preso la mira. Non sono cose che finiscono nei numeri, non sono neppure numeri, se non ad effetto: tu chiamale, se vuoi emozioni o come ti pare; le ritroverai ogni volta che stropiccerai i ricordi di un campionato orgogliosamente perso, in questo maggio così poco romano, in questo abbozzo di futuro romanista sotto un cielo scompigliato  come i capelli di Vucinic, ancora troppo ombroso come gli occhi di Menez.