Zigoni: A Verona vince l’amore E quindi noi

14/05/2010 10:11

C’erano già stati i quattro anni a Torino, con la maglia bianconera. «Per carità, non ho niente contro la , ma a Roma mi sono trovato veramente bene. E l’amerò per sempre»

Domenica, si gioca Chievo-Roma. Immaginiamo che tiferà Roma. «Manco a dirlo. Dopotutto, tra Chievo e Verona c’è una rivalità storica. Poco fa mi hanno chiamato da una televisione veronese. E là, purtroppo, si vive

una tristezza infinita, dal momento che la squadra in cui giocavo non è riuscita a salire in B. Ma, siccome

dopo il temporale c’è sempre il sole, mi son detto, tra me e me, magari domenica avrò una grande gioia. Quella di vedere la Roma vincere. Sarebbe troppo bello! In verità, ci credo poco. Ma proprio perché ci credo poco, sarebbe ancor più bello se si realizzasse».



Andrà allo stadio, lei che vive in provincia di Treviso? «In questo momento sono a Milano, perché mio figlio, che gioca nel Milan e in questi giorni sarebbe dovuto andare in nazionale, purtroppo è a casa con l’influenza. E, non sapendo quando torneremo, la partita la vedrò sicuramente in televisione. Comunque, di Chievo-Roma, come anche di Udinese-Roma, ne ho viste tante. Ogni volta che la Roma gioca da queste parti, vado a vederla. E fortunatamente, l’ho vista vincere più di una volta...». 

Un legame che, a distanza di anni, sembra essere rimasto immutato. «Mi creda: ho pianto il giorno che sono andato via da Roma. Non me lo sarei mai aspettato. Stavo bene, mi stavo riprendendo dopo gli anni alla . Fu Helenio Herrera, pace all’anima sua, che volle darmi via per uno scambio con il Verona e dovetti quindi accettare il trasferimento. Anche se Verona mi ha accolto benissimo ed ho anche lei nel cuore. Anche lì, la

gente mi ha voluto bene da subito. E il tifo, almeno in quegli anni, mi ricordava un po’ quello della Roma... Anche la Valpolicella mi ricordava i Castelli Romani. Con la differenza che ai Castelli bevevo il vino bianco, mentre in Veneto l’amarone. Perché anche il vino, quand’è buono, non guasta...».



Cos’è che non le era piaciuto a Torino? La freddezza dell’ambiente?

«Ero giovane. Avevo ventidue anni quando, dopo due stagioni al e quelle precedenti nelle giovanili bianconere, tornai alla . Vincemmo anche il campionato in quel primo anno, ma - anche se era una grandissima società - sentivo che non era il mio ambiente. Troppo freddo. A Roma, invece, ho trovato un

calore straordinario. Nei tifosi, ma anche nella à. Già quando ti alzi al mattino, è tutto bellissimo. E poi, io credo molto nei colori. Vuoi mettere il giallo e il rosso, così caldi, con il bianco e il nero? Il bianco non è neanche un colore. Il nero sa di lutto...».



Le sue simpatie da bambino a chi andavano?

«Io sono un tipo un po’ strano. Da piccolo facevo il tifo per il Toro, per via di Superga, l’aereo caduto... Nello stesso tempo, provavo una grande ammirazione per Skoglund, che giocava nell’Inter, mentre nella mi piaceva Sivori. E nel Milan Nordhal. Tutti grandi campioni. Milan e Inter mi stavano però più simpatiche

della . Fatalità, sono andato a giocare proprio nella ».

L’Inter di oggi può essere, secondo te, la  di quegli anni? Ovvero, una squadra il cui strapotere la fa talvolta apparire arrogante, anche oltre il dovuto?

«Le dirò: mi piacerebbe che a vincere sempre fosse la Roma. Quanto all’Inter, non mi era neanche antipatica. Lo è diventata, per me, con quest’ultima finale di Coppa Italia. Mi sarebbe stata più simpatica se l’avesse

persa. Mi è dispiaciuto soprattutto che siano andati a giocarla con quella cattiveria. Per giunta, dopo quello che

era successo pochi giorni prima, in Lazio-Inter».

Che impressione si è fatto di quell’episodio?

«Ne ho parlato a lungo, anche con tanti amici e tifosi. E le giuro, non riesco proprio a capire. E a immedesimarmi in uno che entra in campo e non si impegna. A me, in vent’anni carriera come calciatore, non è mai successo di regalare niente a nessuno. Anche ora, se gioco, io voglio vincere. Anche in allenamento. Sennò, ci resto male…Per quale motivo non devo impegnarmi? Vuol dire non avere dignità, anche come uomo. Se non devo giocare, tanto vale che non entri nemmeno in campo. Ricordo una partita, quando ero a fine carriera: io giocavo nel Brescia, mentre nel Cesena, che incontrammo quella volta, giocavano molti miei amici, che erano stati con me a Verona. Da Petrini a Maddè, fino all’allenatore, Cadè. Loro avevano bisogno di vincere a tutti i costi. Noi non avevamo nulla da chiedere. Io, dopo 8 minuti, gli feci gol. A degli amici! Alla fine, è vero, abbiamo perso 3-1, ma io non ho regalato niente. Perché il calcio è questo.

E se tu aiuti uno, fatalmente danneggi un altro. E non è leale, non è sportivo. Non è morale. Lo dico perché spero che il Siena giochi e si impegni contro l’Inter. Purtroppo, lo farà anche il Chievo, come è giusto che sia. Anche se, magari è solo una speranza, credo che sarà più difficile per l’Inter. Mi sento questo. Magari avverrà

tutto il contrario, ma io mi auguro che, stavolta, sia davvero una “fatal Siena”».

A proposito di questo, lei si trovò a giocare, nel ’73, la prima delle due “fatal Verona” contro il Milan. 

«A casa ho un giornale che ancora mi inorgoglisce. In cui il presidente della Lazio, Lenzini, e l’allenatore della , Vycpalek, le cui squadre erano entrambe in lotta con il Milan, si auguravano un mio gol. “Speriamo che quel ragazzo ci faccia un miracolo” dicevano, riferendosi a me».

Lei non segnò, ma ci mise comunque lo zampino.

«Il nostro primo gol nacque grazie a due romanisti. Dunque: nei primi diciassette minuti giocò solo il Milan. A quel punto gridai ai compagni “datemi la palla”. Partii da metà campo, saltai tutti i giocatori rossoneri e detti il pallone a Sirena, il terzino, anche lui un ex della Roma. Glielo misi sulla testa e lui segnò. Da quel momento, il Milan scomparve. A fine partita non ero ovviamente felice, perché vedevo la tristezza negli occhi degli avversari. Ma sapevo di potermi dire a posto con la mia coscienza. E’ per questo che, quando vedo partite come Lazio-Inter, rimango allibito...».

In conclusione, si dice che Verona sia la à romantica per eccellenza. Dunque...

«Se è vero, come è vero, che è la à dell’amore, allora, domenica non può che vincere la Roma».