Nei "Cuori tifosi" batte De Falchi

05/10/2010 12:26

De Falchi Antonio il delitto di lesioni volontarie, colpendo quest’ultimo con pugni e calci, cagionando la morte del medesimo avvenuta per arresto cardiaco conseguente al trauma psichico; con le aggravanti dell’aver commesso il fatto in più di cinque persone e dell’aver agito per motivi futili. In Milano, il 4 giugno 1989».

Renato Samek Lodovici, presidente della quarta Corte d’Assise del tribunale di Milano, motiva con queste parole la sentenza di primo grado pronunciata il 13 luglio 1989 contro gli imputati Antonio Lamiranda, Daniele

Formaggia e Luca Bonalda
, accusati dell’omicidio di Antonio De Falchi, morto sul selciato dell’antistadio di San Siro un mese prima. Un’aggressione in tarda mattinata, alla luce del sole, terminata in tragedia. Calci e pugni per stroncare una giovane vita. In un luogo che avrebbe dovuto essere tra i più sorvegliati e sicuri di tutta Milano, a un anno esatto dai Mondiali di Italia ’90. Mentre a seicento chilometri di distanza, una numerosa famiglia romana si ritrova d’improvviso catapultata nel dolore della morte, lacerata negli affetti più intimi da un nuovo, terribile lutto. 

Oggi la signora Esperia Galloni De Falchi, settantenne donna coraggio e mamma di Antonio, benché siano trascorsi oltre vent’anni da quella maledetta domenica, ancora non riesce a darsi pace. Perché nessuno potrà mai restituirle il figlio, forse nemmeno le risposte che cerca: «Me l’hanno ammazzato. Antonio, Antonio mio, bello de mamma. Ma perché? Perché l’hanno fatto... Perché l’hanno fatto?». Zona periferica a sud di Roma, parallela a via Casilina. Lotti di case popolari tagliate da fermate dell’autobus e lunghe arterie trafficate. Una di queste è viale dei Romanisti, nel senso di insigni studiosi del diritto romano. Al civico 82 di viale di Torre Maura, la sera già estiva di sabato 3 giugno 1989 viene squarciata dal suono insistito e stridulo di un citofono: è quello della famiglia De Falchi, mamma e otto figli, sei femmine e due maschi. Papà Enrico, in preda a una crisi di nervi, si è suicidato un paio d’anni prima lanciandosi dal balcone del quarto piano del palazzo. Lavorava in un negozio d’abbigliamento nella centralissima piazza Colonna: lascia sola la moglie Esperia con i suoi figli.



«Mamma, vado a Milano!». Il citofono suona. «No figlio mio, non andare. Ma che ce vai a fà? A Milano ce odiano. E tanto... La Roma perde!» «No mamma, stavolta ci rifaremo...» Antonio è il piccolo di casa. Una maggiore età appena raggiunta. Magro, slanciato, educato, capelli lunghi come un rocker. Fidanzatina d’ordinanza, motorino Si della Piaggio colore verde petrolio. Marmitta rigorosamente modificata per andare più forte, per stare al passo con i coetanei. «Mio figlio non fumava, non beveva, vedeva solo la Roma, sempre e solo la Roma...» Lasciati gli studi, dopo la terza media, ha iniziato a lavorare come fabbro in una bottega alla borgata Finocchio. Con gli amici del quartiere, da un paio d’anni passa le domeniche al fianco della sua Roma, sia dentro che fuori, in casa come in trasferta. Milano, per esempio, per la sfida della quattordicesima

giornata, meno quattro dalla fine del campionato di serie A. «Il 30 aprile 1989 era tornato da Como tutto contento», ricorda mamma Esperia. «Sebino Nela gli aveva lanciato la sua maglietta dal campo e la Roma aveva vinto.  Portò a casa quella maglia tutta sudata. Puzzava, ma per lui era come la reliquia di un Santo...».

Sotto casa, nel cortile del palazzo, s’è attaccato al citofono Fabrizio Tessitore, il compagno di tante domeniche passate in , a seguire i cori lanciati dal Commando Ultrà. Sciarpe, bandiere e cappelli romanisti. «Ecco, questo è Antonio, questo qua...» indica la mamma puntando l’indice su alcune foto ingiallite. Il volto del figlio compare sul muretto degli striscioni dei Mods giallorossi e de L’Impero Continua. Quel sabato sera, però, è tutto diverso. Con altri ragazzotti da Torre Maura la comitiva si mette in viaggio verso la stazione Termini. Da qui, a bordo di un treno notturno con una cinquantina di altri tifosi, si dirige alla stazione di Milano Centrale. Roma-Milano biglietto di sola andata.

Milan-Roma gara del girone di ritorno. Puntuale, Antonio De Falchi ha risposto all’appello. Altro treno, altro viaggio, altra trasferta. Al fianco della sua Roma. Esperia De Falchi, madre di Antonio, 2009: «Avevano

viaggiato in treno per tutta la notte. Arrivati a Milano intorno alle 9 del mattino, Antonio si era staccato dal gruppo dei tifosi per farsi un giro per la à, insieme a tre suoi amici. Erano andati in centro. Mio figlio aveva addirittura comprato delle cartoline come souvenir. Non era partito da Roma per fare casino, anzi. Non gli piaceva per niente. Una volta era andato allo stadio pure senza la cinta dei pantaloni, per non avere problemi nelle perquisizioni della polizia...»

Nato a Roma il 2 novembre 1970, Antonio De Falchi ha 18 anni, uno in più degli amici Angelo Graziosi, Alfredo Faina e Fabrizio Tessitore. Tutti di Torre Maura e viale Alessandrino. Alcuni si sono conosciuti da poco sul treno. Dopo una passeggiata ai piedi del Duomo, arrivano con i mezzi pubblici in zona San Siro, dove c’è la fermata del tram. Sono circa le 11.45. Davanti ai loro occhi, uno stadio praticamente in ristrutturazione.

Un cantiere aperto per i Mondiali di calcio. I ragazzi romani sono soli. Abbigliamento tipicamente giovanile.

Giubbotti, bomber, jeans, ai piedi scarpe comode, da passeggio e da ginnastica. Passato piazzale Axum, si trovano a ridosso della , il tempio del tifo milanista, delle Brigate Rossonere, dei Commandos Tigre e della
Fossa dei Leoni. Camminando, Antonio, Angelo, Alfredo e Fabrizio si dirigono verso la Nord, il settore solitamente riservato agli ospiti nelle partite casalinghe del Milan. Lì sotto, controllati a vista da un reparto di carabinieri, i circa 50 tifosi romanisti giunti in treno sono in sosta obbligata davanti al Bar dello Sport, in attesa che aprano i botteghini e si possano acquistare i biglietti della partita.

Una partita speciale perché quel giorno è in programma la festa dei diavoli rossoneri, freschi campioni d’Europa dopo aver battuto in finale al Camp Nou di  la Steaua di Bucarest. Antonio e gli amici, intanto, si trovano a ridosso dell’ingresso numero 16, sotto una delle torri in cemento erette per l’ampliamento dello stadio. Alfredo Faina, amico di Antonio De Falchi, verbale di ricostruzione sommaria, 4 giugno 1989: «Mentre stavo camminando con i miei amici, ho visto una ventina di ragazzi uno vicino all’altro, seduti su dei blocchi di cemento armato e guardavano nella nostra direzione e io ho sentito uno di loro dire: ‘Sono romani’. Noi non avevamo sciarpe o alcun segno di identificazione quali tifosi della Roma». Angelo Graziosi, amico

di Antonio De Falchi, verbale di ricostruzione sommaria, 4 giugno 1989: «Mentre noi passavamo uno di loro si

è alzato, anzi forse si era già alzato prima, e si è avvicinato al mio amico Alfredo. [...] Quello che si è avvicinato, che ho già descritto con la maglietta bianca [...] ha chiesto ad Alfredo l’ora e poi ancora una sigaretta. Era evidente che voleva capire qual’era il nostro accento, tant’è vero che Alfredo alla prima domanda ha cercato di rispondere imitando la cadenza milanese, mentre alla seconda domanda, vista l’insistenza, ha risposto: ‘Ma che volete, non inventate niente... siamo solo in quattro’ o qualcosa del genere»
.

Fabrizio Tessitore, amico di Antonio De Falchi, verbale di ricostruzione sommaria, 4 giugno 1989: «Ho visto intanto che il ragazzo con la maglietta bianca faceva con la mano destra il gesto di chiamare i compagni. Muoveva la mano come per dire ‘venite’. Intanto i ragazzi si stavano avvicinando, Alfredo ha gridato ‘scappamo’ e tutti abbiamo cominciato a correre...» Alfredo salta una recinzione sul piazzale, sparendo dalla scena e divorando una trentina di metri da solo. Tutti d’un fiato. Angelo, Fabrizio e Antonio corrono invece nella stessa direzione, verso la curva Nord, dove staziona una volante della polizia. Subito s’alzano le grida: almeno quindici, venti ragazzi di un gruppo di una cinquantina di milanisti inizia a rincorrerli, lanciando la carica: «Prendilo, prendilo», «Dagli al romano»«Sono romani...». Angelo per un attimo viene afferrato: «Mi sono sentito toccare e sentivo che mi tiravano cercando di bloccarmi...» ma riesce comunque a divincolarsi. Fabrizio, prima bloccato da uno che gli si è piazzato davanti, arresta per un attimo la corsa scagliando verso gli aggressori un mattone colto alla meno peggio, per poi riprendere la fuga sino a essere fermato da un poliziotto.

Antonio De Falchi, invece, resta indietro. Troppo indietro. Da solo. Solo contro venti. Teste Galimberti, sentenza della Corte d’Assise di Milano, 13 luglio 1989: «Nel frattempo sentivo i tifosi milanisti che chiedevano ad altri tifosi che sopraggiungevano di fronte agli inseguiti di bloccarli, essendo di fede romanista. Due dei tifosi romanisti riuscivano a scappare, mentre il terzo veniva bloccato da un giovane con uno sgambetto. [...] Il giovane inseguito ruzzolava per terra, andando a sbattere contro un cancello, dove tra l’altro rimaneva intrappolato. [...] Gli inseguitori balzavano addosso al tifoso romanista, colpendolo più volte con

calci e pugni. [...] Lui, sto povero ragazzo, lì è caduto in terra, poi è riuscito ancora ad alzarsi, però tentava di camminare ancora. Gli hanno allungato un’altra volta il piede [...]»
. Sgambettato, strattonato, Antonio assaggia l’asfalto. Si rialza, ma ricade nuovamente. Viene raggiunto da una violenta sequenza di scarpate, calci e pugni. Una scarica di adrenalina incontrollabile. Sono in molti a picchiarlo, sicuramente più di cinque persone. Alcuni corrono impugnando la cinta dei pantaloni. Altri gli si avventano addosso selvaggiamente, neanche fosse una preda selvatica. Ed è in quel preciso istante che si verifica il dramma. Di colpo. Gli aggressori capiscono. In un attimo, il fuggi fuggi.

L’arrivo della polizia del reparto mobile riesce a sparpagliare il gruppo degli assalitori, anche se poi si ricompongono prontamente, restando nella zona, fermi a guardare. Sul selciato rimane Antonio. Solo, capo riverso, curvo al suolo. Respira faticosamente. Con affanno. Un agente sopraggiunge in suo aiuto. E cerca disperatamente di rianimarlo.



Continua