Banchieri, cemento e nobiltà. Quando faceva tutto la Dc

31/01/2011 16:21

Prova infine a spiegare a questi benedetti e sempre ipotetici americani che tale variopinta umanità, oltre a rispecchiare la natura di una metropoli eminentemente promiscua, è finita per combinarsi e strutturarsi, campionato dopo campionato, secondo i desideri di una sorta di divus absconditus, cioè di un potente nascosto che a volte si concedeva di intervenire negli affari della società, ma come un deus ex machina, anche se per taluni era l'incarnazione di Belzebù. Insomma si parla qui di Giulio Andreotti che con la tipica ipocrisia democristiana, a sua volta frutto di saggia pazienza, lasciava si parlasse di lui come di un tifoso "come tutti gli altri", ma che in realtà fece e disfece i presidenti limitandosi a dire sì o no secondo logiche per lo più emergenziali, essendo la Roma regolarmente sull'orlo del fallimento - ed è plausibile che tale condizione, un po' come accadeva in parallelo all'Italia, agevolasse i suoi sottilissimi giochi di sponda, di specchi, di narcosi e di spezzettamento dei problemi e delle magagne.

Per cui, partendo dalle macerie, dapprima chiamò da Cassino l'onorevole Restagno con l'obiettivo della ricostruzione e poi benedisse il breve intermezzo del Vaselli, uno dei pochi, d'altra parte, così gradito a Santa Romana Chiesa da godere del vano privilegio dell'eterno riposo in una chiesa; per quindi incoraggiare il simbolico ritorno di Renato Sacerdoti, "il banchiere di Testaccio", dopo l'esilio per le leggi razziali. Tutto sempre con tocco discreto, tutto all'insegna della più inconsolabile modestia di traguardi. E venne dunque Anacleto Gianni, dalla à dell'Amatrice, e poi il Marini-Dettina, il cui nome ingiustamente richiama un'umiliante colletta al Sistina perché la squadra non aveva nemmeno i soldi per andare in trasferta. Poca gloria, troppa fatica, la giusta passione accompagnava questo alternarsi di personaggi uguali e diversi.

E fu il turno del braccio di Andreotti, l'indimenticabile Evangelisti, presidente di una dimenticabile "Rometta", che faceva pure la vittima:
"A me m'ha buscherato il blocco stranieri". E di seguito vennero l'ingegner Ranucci, da Formia, e come effetto del consociativismo, si disse, o come aperitivo del compromesso storico, comunque si bruciò fra mille polemiche con Herrera la meteora del "palazzinaro rosso", Alvaro Marchini; e la longeva presidenza di quello mite, Gaetano Anzalone, cui si deve la più bizzarra e brutta divisa della squadra.

Per la verità giunsero anche dei successi. Dopo che Dino Viola, imprenditore in affari con la Nato, vinse lo scudetto, Andreotti tolse il collegio al filosofo Del Noce e lo fece eleggere senatore. Quando Falcao faceva i capricci per il contratto, per la prima volta "interpose i suoi buoni uffici" risolvendo la faccenda coram populo, e con tutti gli onori del caso portò il brasiliano dal Papa. Ma al culmine dell'onnipotenza, e in mirabile sincronia con i primi segni del crollo della Prima Repubblica, l'andreottismo romanista andò a sbattere sulla presidenza di Ciarrapico. Questi, oltretutto, oltre a non essere né romanista né palazzinaro, non capiva nulla di calcio ed era già troppo pieno di debiti per giostrarsi anche quelli della Roma. Si limitò a organizzare "er caterin" (leggi catering) all'Olimpico con i capitifosi che si andavano a sfondare prima della partita, e insediò una improbabile Consulta giallorossa con Alberto Sordi, Ornella Muti e la Cuccarini. Gli dava una mano, nella discesa, Mauro Leone. Ma il "giocarello", come lo chiamava lui sventolando con poca convinzione una sciarpa giallorossa, finì malissimo, cioè in galera.

L'esperienza di Sensi, padre e figlia, è troppo vicina perché gli americani non possano studiarsela come gli conviene - e in fondo anche come merita.