26/01/2011 10:00
Vincenzino è quello che meglio conosce la rotazione. «Lo chiamai turn never, con una battuta che ancora mi piace molto: stavo sempre fuori io». Ma è anche quello che, giocando la ripresa di Juve-Roma del 6 maggio del 2001, realizzò la rete del pari al fotofinish che pesò tantissimo in quel campionato. «Diciamolo pure: almeno mezzo scudetto».
Parere da intenditore: come si sta in panchina?
«Io la vivevo male. Toccava sempre a me. E non leggevo nelle decisioni del tecnico che lui premiasse la meritocrazia. Magari qualche volta poteva anche aver ragione, molte no».
Dieci anni dopo, da Capello a Ranieri, altri panchinari sbuffano. Se li incontra a Trigoria, che cosa dice loro?
«È diverso da allora. Ripeto: lescluso ero sempre io».
Mettiamola in un altro modo: dia loro qualche consiglio. Come superò quei momenti?
«Alla fine mi sono convinto che era la qualità a fare la differenza in una partita e non i minuti giocati. Resta quello che fai in venti minuti o anche meno. Comunque il calciatore moderno deve convivere con la realtà del turn over».
E giusto arrabbiarsi per unesclusione?
«Sì. Lo dico anche da allenatore. Un giocatore che smania, che si infuria, che esterna il suo malumore dimostra la sua voglia di lottare, di conquistare il posto, di esprimersi al massimo. Basta, però, comportarsi da professionisti. Se vai in campo incazzato, dai sempre il meglio».
Dicono che fosse la strategia di Capello: se Montella entra dopo, è sempre decisivo perché vuole dimostrare allallenatore che sbaglia a tenerlo fuori e scarica tutta la sua rabbia in partita. Vero?
«Se lo sento dire, mi arrabbio oggi proprio come quando giocavo. Io anche da titolare lasciavo il segno: quando Batistuta si fece male a Vicenza e io presi il suo posto per quattro gare segnai sette reti».
Era geloso dei compagni?
«No. E non ho mai provato invidia che è una malattia. Ma può accadere. Non a me».
La lite più brutta resta quella di Napoli alla penultima giornata?
«Si, mi sentii preso in giro. Mi fece scaldare tutto il secondo tempo, mettendomi in campo solo quando prendemmo il gol nel finale. E volò la bottiglietta. Lui era in trance e io persi la pazienza. Ma con Capello il rapporto è sempre stato buono, anche se a volte non ci sopportavamo. Non mi ha fatto mai andar via dalla Roma».
Entrò per Delvecchio, dopo lintervallo, a Torino contro la Juve e firmò il pari in extremis. E stato il suo gol più importante con la Roma?
«Provo gioia ancora oggi, solo a ricordarlo. Con la palla che sembrava non entrare mai. Per me quella fu una settimana particolare: ero infortunato, Capello non mi voleva convocare e io convinsi il medico Brozzi a portarmi lo stesso. Le sostituzioni in quel caso cambiarono il risultato: entrò anche Nakata per Totti, segnando la nostra prima rete e propiziando anche la mia con un gran tiro che ingannò van der Sar».
Domani nuovo viaggio a Torino: quarti di Coppa Italia, proprio contro la Juventus. La Roma è ancora in corsa su tre fronti. Sorpreso?
«No. Proprio lattacco è larma in più. Nessuna squadra, nemmeno il Milan ora più competitivo con Cassano, numericamente ha lo stesso potenziale offensivo. Peccato per la brutta partenza, ma Ranieri adesso sta sfruttando al meglio e con equilibrio lorganico che, essendo completo, può fare la differenza».
A proposito: riesce a far digerire il turn over ai quattordicenni?
«Ne ho ventotto. Faccio giocare tutti, anche se poi credo nella meritocrazia. Ma non è detto che chi fa più minuti ora arriverà di sicuro e gli altri no. Spesso accade il contrario».
Quanto conta la qualità del singolo già nel settore giovanile?
«Per me tantissimo. Io vado controcorrente: non guardo al fisico, ma alla tecnica, anche se sono piccolini. Li faccio allenare sempre con il pallone tra i piedi. Scompare solo per una decina di minuti al giorno. Per la tattica cè tempo. Io a questa età li alterno in tutte le posizioni, li addestro mettendoli anche fuori ruolo».