05/02/2011 12:56
Da Italo Foschi, fondatore nel 1927 della Roma, fino allultima presidentessa Rosella Sensi, questa squadra nelle riunioni dirigenziali aveva sempre parlato lidioma del Belli e Trilussa. «Ma il calcio si deve adeguare alla globalizzazione e non facciamo catenaccio con dello spicciolo nazionalismo», ci potrebbero far notare dalla tribuna vip di Montemario. Calma olimpica. Del resto si potrebbe anche dire che in fondo la famiglia Sensi, proprietaria nellultimo ventennio della Roma, arrivava da Visso che non è poi lontana dalle radici abruzzesi di mister DiBenedetto.
A proposito: si scrive così, «DiBenedetto», tuttattaccato, o fu un errore dellanagrafe di Boston? Ennesimo mistero di una testa di cuoio. Come la compravendita, quella della Roma: la più lunga della storia del calcio italiano. Un giro del mondo in ottantamila giorni di trattative, molte solo virtuali, più sofferte che offerte, partite dai gasdotti russi, passate per le dune di Dubai e i pozzi di petrolio degli Emirati e poi atterrate su un tavolo che sa tanto di Cera una volta in America. «Ma almeno sto DiBenedetto è lunico che ce mette li sordi», rimbalza, da Testaccio a Trigoria, la voce del popolo giallorosso. Sembrerebbe questa la verità. Come è vero che non si è trovato un solo imprenditore italiano (tranne lAngelucci bocciato) in grado di rilevare una società che nel 2001 ha vinto il suo ultimo scudetto e, nonostante i mille problemi economici, è rimasta sempre a galla, addirittura ai vertici del nostro calcio. Un piccolo miracolo sportivo, ripetuto nelle ultime stagioni, anche grazie agli assist provvidenziali delle banche (prima Capitalia poi Unicredit) e anche qualche salvataggio sulla linea della porta di Montecitorio.
«Fuori la politica dal calcio!», gridano i presidenti nel pallone. Ma poi alla fine, senza lappoggio del Palazzo, tanti club fallirebbero o scomparirebbero per un po dal grande palcoscenico della Serie A. Funziona così nella nostra Little-Italy del football. Ma tutto questo lavranno spiegato a mister DiBenedetto? Lui si intende di baseball, caccia dollari per i Red Socks e gli ha tolto pure il malocchio, lanciato ai bostoniani dallex maligno Babe Ruth nel lontano 1914: esorcizzato con la vittoria della World Series (lo scudetto del baseball) nel 2007. Dopo 93 anni. Ed ecco che a quasi 90 anni dalla nascita della Roma cè un americano che vuol fare il presidente di un club italiano. Dove hanno fallito gli inglesi al Vicenza, e i libici che con la famiglia Gheddafi hanno solo annusato la Juve, forse potrebbe riuscirci questo paisà di ritorno.
Cè una settimana per capire se sir Thomas, che ha avuto a che fare anche con il Liverpool, possa diventare il sor Tommasino (come Haessler, lex tedesco giallorosso) e abbattere per sempre lultimo baluardo della tradizione italica. Quale? Quello delle moderne signorie sul trono di un club di calcio, grazie alle quali si poteva ancora identificare una squadra con la sua città. Dopo laddio alle antiche e colorite famiglie decadute dei Rozzi di Ascoli, gli Anconetani di Pisa, i Massimino di Catania che insieme alle grandi dinastie dei Rizzoli, Moratti e Agnelli, hanno fatto la storia del nostro calcio, ci siamo dovuti arrendere ai moderni signorotti del mercenariato pallonaro. Solo i Matarrese da 34 anni rimangono saldi al comando del Bari e hanno resistito persino allassalto-farsa del fantacalcistico milionario texano Timothy Burton. Entro la metà di febbraio sapremo: se DiBenedetto diventerà il nuovo «re de Roma», o se è solo un altro Burton che vuò fa lamericano, anche se non è nato in Italy.