Doni: Roma, così non va

09/03/2011 10:05

DONI - Chi si ferma a parlare è il por­tiere titolare, oltretutto con un visto­so segno sotto l’occhio, ma niente a che fare con la partita di ieri sera, «giocando con mio figlio mi ha colpi­to con il telecomando». Un modo per provare a sdrammatizzare una notte ucraina che la Roma non avrebbe mai pensato di vivere in questa maniera. La sua analisi è anche un piccolo atto d’accusa nei confronti della Roma co­me squadra: «Dobbiamo lavorare sot­to il punto di vista nervoso, perché una grande squadra non si comporta come facciamo noi quando andiamo in difficoltà. Ora siamo fuori dalla , qui dovevamo fare un’impresa, il rigore sbagliato e l’espulsione di Mexes hanno chiuso definitivamente il discorso qualifica­zione. Siamo stati anche sfortunati negli episodi, sul primo gol quel pal­lone è sbucato all’improvviso e non potevo farci niente. Così come sulle altre due reti. Ora sarà il caso di pen­sare subito alla sfida con la Lazio di domenica prossima. Sarà una partita importantissima, dobbiamo vincere a tutti i costi per rimanere nelle prime posizioni in classifica e continuare a inseguire un piazzamento anche per la prossima stagione».

BURDISSO - L’argentino è uscito zoppi­cando, ha un problema al polpaccio sinistro, «ma non è niente di serio, per il derby sarò a disposizione». Ma­gra consolazione dopo una notte così amara da : «Io voglio ve­dere le cose positive. Fino a un certo punto del primo tempo abbiamo gio­ bene, poi certe fasi e alcuni epi­sodidella partita ci hanno condanna­to. Sul nervosismo, è vero, siamo sta­ti nervosi, ma soprattutto ingenui per­ché abbiamo risposto alle loro provo­cazioni. Questa tensione nervosa può anche non essere negativa, perché ci può dare una carica positiva in vista del derby, una sfida che dovremo vin­cere per continuare a inseguire la qualificazione . Mi dispia­ce che Mexes sia stato espulso, il se­condo giallo non lo meritava, è stato un episodio molto penalizzante per noi perché a quel punto, una volta ri­masti in dieci, le speranze di poter fa­re un’impresa erano praticamente ri­dotte a zero»