Quando un pareggio vale quanto una vittoria

13/03/2011 12:06

che si gonfia e il vento in faccia che ti porta l’esultanza di quegli altri. C’è solo una cosa più bella di vincere un derby. E’ pareggiarlo quando loro sono sicuri di vincerlo, magari con in panchina l’allenatore che loro hanno amato e rinnegato e magari quando sei sicuro di perderlo perché sei sotto di due gol, sotto di un uomo, in casa loro e dopo aver perso le ultime quattro volte. Già, perché c’è stato anche un tempo in cui la Lazio vinceva 4 derby di seguito (ma ce n’è stato pure uno in cui la Roma ne ha vinti 5 di fila, solo che loro - che in realtà della storia della Roma sanno tutto- fingono di non saperlo).

Mescolando tutto questo si arriva al 28 novembre 1998, primo derby di una stagione che sa di riscatto. Al suo secondo campionato con Zeman, la Roma è partita meglio della Lazio e in classifica è seconda con 18 punti, mentre la Lazio è nona, a quota 13. C’è tutto per credere che finalmente la storia possa cambiare e una curva piena di bandiere, stile Anni 70. L’inizio di partita è di marca giallorossa, Paulo Sergio e Tommasi sfiorano il vantaggio, ma non è sufficiente. Anche l’anno prima era così, ma poi finiva come finiva. Al 25’ però Pierre Wome dà sfogo alla sua energia primordiale con una sgroppata sulla fascia sinistra. Gioca al posto di Candela, indisponibile, e non si è ancora infortunato per andarsi a curare in Camerun con intrugli di chissà quale origine... E’ ancora un giocatore della Roma e finora la curva è abituata ad aspettare con ansia i suoi calci di punizione per vedere il pallone partire dritto per dritto, fortissimo, regolarmente fuori dalla porta. Stavolta però dal suo sinistro parte una palla sporca, meravigliosamente sporca, che gira pure e passa attraverso Mihajlovic e Marchegiani. La prendo io? La prendi tu? Nessuno dei due vede sbucare, proprio dietro al difensore serbo, Delvecchio. Ci arriva in maniera illogica, col sinistro, ma riesce a spingere il pallone in porta. Gol, uno a zero. Nei 4 derby dell’anno precedente non solo la Roma aveva sempre perso, ma non era neanche mai stata in vantaggio. Gol, orecchie di Delvecchio alla Tevere, gol. Non è solo un urlo di gioia, ma liberatorio, quasi il presagio che forse la storia sta cambiando. Resta in gola (basta comprare una vocale dopo il gol), però, perché pochi minuti dopo Mihajlovic fa partire un lungo pallonetto da centrocampo, Roberto Mancini la tocca al volo e mette il pallone alle spalle di Chimenti. E’ un colpo al cuore, che lascia la Sud attonita per qualche minuto. E’ ancora quel fastidiosissimo vento in faccia. Altro che presagio, qui c’è ancora

tutto da fare. Per fortuna arriva l’intervallo a ricaricare muscoli e corde vocali. Nel secondo tempo scende in campo una grande Roma e una grande curva. La squadra ci crede, la sua gente la spinge. No, non è un derby

come gli altri quattro, non può esserlo, non deve esserlo. I calciatori prendono la palla come vuole Zeman e, se serve, le caviglie come un derby impone.

 

Fabio Petruzzi si fa ammonire, la Roma continua ad attaccare, la Lazio però è sempre pericolosa quando reagisce. All’11’ calcio di punizione per i biancocelesti.Dal vertice dell’area di rigore batte Mihajlovic, una parabola delle sue che Mancini spizza giusto giusto per mandare fuori giri Chimenti. Due a uno. Stavolta la Sud non si scompone e continua a cantare più forte. Petruzzi però rimedia pure la seconda ammonizione e al 23’ Wome atterra Salas lanciato in area. E’ rigore netto, il cileno tira di qua, Chimenti va di là. Tre a uno. Sotto di due gol, sotto di un uomo, sotto i tacchi e sotto i tacchetti. In Nord già si festeggia e dopo il poker dell’anno prima s’invita a passare alla Teresina. In Sud si continua a cantare, anche se perfino l’amico di sempre comincia a uscire. «Dove vai? Non è finita». «Non ce la faccio, ti aspetto alla macchina. Il quinto derby non lo posso sopportare. E’ troppo». Troppo amore, forse. Chi resta canta guardando nel vuoto, magari si stringe forte a una sciarpa perché chi era accanto a lui se n’è andato. Gli dicono che la Lazio ha segnato il 4-1, gli spiegano che era in fuorigioco (non Stankovic, autore del gol, ma qualcun altro in area). Chi se n’è andato, a un certo punto, sente un urlo. Svolta a U su Viale dei Gladiatori, non serve chiedere «chi ha segnato?», perché è la Sud che chiama, è la Roma che chiama. «Che è successo?» Chi è restato non lo sa spiegare, perché cantava guardando nel vuoto e a un certo punto ha visto la rete gonfiarsi. Tre a due, ha dribblato

mezza difesa, Nedved ha sbagliato il rinvio e Di Francesco l’ha messa dentro. Solo chi si riguarderà la partita il

giorno dopo (magari su T9 con il commento tecnico di Giorgio Chinaglia) si renderà conto che anche sotto di due gol e sotto di un uomo la Roma aveva continuato ad attaccare, sfiorando già prima il gol con un gran tiro da fuori di . E ora? E ora si gioca, si tifa. Ci si stringe sempre di più perché la spinta di chi, sentito il richiamo della Roma, è rientrato di corsa in curva, si sente fino a farti scendere qualche scalino più giù. Più forte, a costo di ritrovarsi in campo. Corre più forte anche Delvecchio, su un pallone che sembra perso, ma che Supermarco riesce a togliere a Fernando Couto. Il pallone rotola là dove sta accorrendo , che arriva prima di Mihajlovic e prima che Marchegiani, che sta ancora seguendo il pallone stesso, se ne renda conto. Il suo tocco è ancora più sporco, ancora più meravigliosamente sporco. La palla rimbalza, carambola, si muove lentamente verso la porta. Marchegiani la sta ancora cercando sul palo
, ma intanto sta entrando


nel palo sinistro. Stavolta non c’è bisogno di aspettare che la rete si gonfi, dalla Sud, punto d’osservazione

privilegiato rispetto al resto del mondo, si vede benissimo.

 

L’urlo non è secco, cresce accompagnando il pallone che entra in porta, si sente fino al giorno dopo su T9 quandoGiorgio Chinaglia, che commenta in differita quindi già sapendo il risultato, si lascia andare: «Noo, non si può prendere un gol così, ma come si fa...» La palla entra e è già sotto la curva, tutti sono rientrati, tutti sono in campo. Tre a tre. In 10 contro 11, da tre a uno. In tre minuti. L’urlo è ancora più

forte perché ce n’è uno in più. E’ quello che parte dalla tribuna d’onore, dove un romanista ha dovuto sopportare di tutto, comprese le risatine di Guido Paglia. Quel romanista adesso è in piedi e urla forse il suo gol più sentito da quando è presidente della Roma. Franco Sensi è in piedi e urla, Guido Paglia ha la faccia di pietra, come deve averla anche Chinaglia negli studi di T9 pure se è il giorno dopo, come ce l’hanno tutti quegli altri che si beccano non il vento ma una bufera in faccia, come ce l’ha Eriksson in panchina. Anche se a dire la verità Eriksson ha sempre quella faccia, quando vince, quando perde, quando si fa esonerare, quando si fa beccare con l’amante. Magari quella di stasera si chiama Teresina. Magari gli facciamo il quarto... Magari glielo facciamo davvero. Punizione di , testa di Delvecchio, 4-3. No dai, così è troppo. E per fortuna che l’amico di sempre è rientrato appena in tempo per vedere la bandierina del guardalinee alzarsi, ma se c’è una definizione di felicità pura è esattamente ciò che ha provato ogni romanista prima di accorgersi che Farina - te possino ammazza’ che m’hai annullato - aveva fermato tutto. E pazienza se l’ha annullato, perché l’iperuranio non è sempre raggiungibile. E in questo mondo, comunque, non c’è niente di più bello di un derby in trasferta pareggiato da 1-3 e in 10 contro 11.

Roba da far cambiare pure i cori della Sud e le canzoni di Rita Pavone: Perché perché / la domenica mi lasci sempre sola / per andare a vedere la partita della Roma / perché, perché / tre a uno, tre a due, tre a tre