E DiBenedetto disse: «Davvero si può fare?»

25/08/2011 10:44

Una canicola d’afa martoria i sanpietrini, i turisti maledicono l’estate romana, il pizzardone a Fontana di Trevi maledice a sua volta l’asfalto rovente, sventolandosi col blocchetto delle multe. Il ponentino è una storia dimenticata.

L’avvocato dei Sensi - anzi: l’Avvocato - sfoglia le carte. L’abito è abbinato al tono di voce: professionale. Agosto perde gli ultimi petali, un gentile omaggio di Vucinic ha permesso all’Inter di alzare la Supercoppa. Ranieri è sulla via dell’addio, anche se il punto di non ritorno è lontano, la Sensi è da poco un presidente pro tempore. «Ma durerà ancora molto questa transizione», sogghigna l’Avvocato dando un’altra sbirciata ai documenti. Lui ha già vinto.

L’accordo siglato un mese prima con Unicredit garantisce un futuro sereno ai Sensi. Alla famiglia. In cambio, l’istituto di credito ha preteso una sola cosa. La più bella. L’unica che ancora conservi un valore. Un valore immenso. Per tutti. È l’As Roma.

Boston, agosto 2010. Dall’altra parte del mondo, un americano dal capello brizzolato e la polo infilata nei jeans chiama Roma. «Si può fare davvero?». Passa qualche secondo. «Sì, certo». L’americano resta di nuovo in silenzio. Contempla il traffico sfilare lento per Tremont Street. Nel mare d’asfalto là sotto, una signora di mezza età corre goffamente verso Boylston Station. Una madre accompagna il figlio a fare scorta di ciambelle da Dunkin’ Donuts. Boston d’estate si colora di un blu profondo. Blu oceano. «C’è ancora, mister DiBenedetto?», domanda la voce romana. «Ci sono ancora, avvocato. D’accordo. Partiamo». Eroi ed antieroi, miti e mezzi uomini, consigliori e comunicatori, schieramenti di stampa, exit strategy. Persino delle guerre intestine. Poi cifre, carte, stalli, diffide, minacce di ritirata. E dodici mesi più tardi, i contratti. La vendita. Dopo la Nafta Moskva, Soros, la bufala Fioranelli- Volker Flick, Angelini, la pista Angelucci, dopo sette anni di smentite sui comunicati Italpetroli, l’As Roma è stata ceduta sul serio. La gestisce una cordata americana.

La gestisce, perché l’As Roma non è mai un bene realmente in vendita. È di tutti i romanisti, mai di uno solo. A capo c’è un americano. Anzi, l’Americano. Si chiama Thomas Richard DiBenedetto, ha 62 anni, è felicemente sposato con l’elegante e cordiale Linda Marie, vanta antenati italiani (Siano, provincia di Salerno), è padre di cinque figli uno dei quali - si chiama Thomas come il papà - gioca a baseball a Reggio Emilia (ma la prossima stagione potrebbe approdare a Roma), è un uomo d’affari.

E dal 18 agosto è pure il proprietario, o meglio il gestore, di una società di calcio. La nostra. È il 26 luglio 2010. Una data storica. Presso lo studio dell’austero presidente del collegio arbitrale Cesare Ruperto, Rosella Sensi e Unicredit ratificano l’accordo per la cessione del club. Il patto è semplice. Roma 2000, la controllante di As Roma, resta dei Sensi fino a quando Piazza Cordusio non avrà scelto un compratore. A individuarlo contribuirà l’advisor Rothschild, un intermediario di caratura internazionale diretto in Italia da Alessandro Daffinà. E’ un tifoso giallorosso. Anzi, meglio ancora: un anno prima, l’Unione Tifosi Romanisti lo aveva nominato “Cavaliere della Roma”. Per i tifosi, è una garanzia. Ma una garanzia lo è anche, anzi lo è soprattutto a giudicare da come è andata a finire questa storia, un altro tifoso romanista. È l’avvocato Mauro . Schivo, non ama i riflettori, non dà troppa confidenza ai giornalisti, ama il suo lavoro. È uno dei più stretti collaboratori di Mario Tonucci, il titolare dello studio internazionale in cui dodici mesi fa iniziano gli scambi di corrispondenza con DiBenedetto.

Particolare, che poi tanto particolare non è, nel 2008 aveva lavorato per vendere l’As Roma a George Soros, il potentissimo finanziere americano nato in Ungheria che puntava a scalare l’As Roma con la collaborazione della Inner Circle Sports LLC. Giusto per ripassare: i Sensi rifiutarono un’offerta di 283 milioni di euro e l’affare saltò. Quando il 26 luglio Unicredit avvia il procedimento di vendita, ha ancora in mano tutto. Le carte sull’As Roma sono sempre lì. Sul suo tavolo. Intanto, però, Rothschild si sta già muovendo. La banca d’affari spedisce il dossier sul club alla New England Sports Ventures, che diventerà poi Fenway Sports Group. In realtà, i dossier sono due. L’altro è quello sul Liverpool. La New England sceglie di scommettere sul mercato inglese. Siamo ad agosto. Un anno fa. Tramite un proprio contatto negli Stati Uniti, aggancia DiBenedetto. Comincia un fitto carteggio. Viene informata Unicredit, che nel frattempo ha fissato per i primi di novembre la prima scadenza del procedimento di vendita: le offerte non vincolanti. Ne giungono dodici. Solo alcune hanno accesso alla due diligence, ovvero a quelle informazioni che Compagnia Italpetroli definisce «di maggiore dettaglio» e che sono necessarie per predisporre delle offerte vincolanti. È lo step successivo.

DiBenedetto segue con sempre maggiore interesse il procedimento di vendita. Parla con i suoi amici investitori, cerca di creare una cordata. Individua dei soci forti, uomini con cui è cresciuto nella sua Boston. Sono dei Re Mida, trasformano lo sport in business. Ci sanno fare, gli americani. A DiBenedetto dice subito di sì James “Jimmy” Pallotta, che ha stregato i romanisti con quel suo fondo di investimenti ad alto rischio dal nome così piacevolmente aggressivo, il Raptor Evolution Fund. Gli altri soci sono Richard D’Amore, uno specialista in new media e telecomunicazioni e Michael Ruane, che può offrire un’esperienza pluridecennale nel campo immobiliare. Ruane possiede un patrimonio personale superiore agli altri tre membri, ma non gli piace apparire. Delega, come gli altri, la leadership alla persona ritenuta più indicata. All’amico Thomas. Anche DiBenedetto preferirebbe non uscire allo scoperto troppo presto. Mister Tom segue la Roma all’Olimpico contro l’Inter e il Bari nel più completo anonimato. E infatti fino al 26 gennaio si sa unicamente dell’esistenza di una cordata a stelle e strisce. Il nome di DiBenedetto viene reso noto solo quando non è più possibile tenerlo nascosto. D’altronde, l’interessamento degli americani ha ormai coinvolto i piani alti di Piazza Cordusio. Il 25 gennaio, il Deputy di Unicredit Paolo Fiorentino e il responsabile corporate Piergiorgio Peluso partono per gli States. Gli americani chiedono una trattativa in esclusiva e vogliono che la banca resti nella futura holding con una partecipazione importante. Quando Fiorentino e Peluso tornano (soddisfatti), la faccia di DiBenedetto è su tutti i giornali. Alla vigilia della deadline per le offerte vincolanti, il 31 gennaio, si stila la griglia di partenza. Gli americani sono in pole. Ma quando le offerte diventano pubbliche, si scatena il finimondo. Oltre alla cordata guidata da DiBenedetto, si sono candidati a comprare l’As Roma anche il “re” delle cliniche private Giampaolo Angelucci, che i romanisti sospettano possa essere un secondo Ciarrapico, un fondo mediorientale, uno francese.

E soprattutto Aabar Investments PJSC, il fondo sovrano degli Emirati Arabi. Se fosse vero, non ci sarebbe partita. Per nessuno. Ma non è vero. Prima il fondo emiratino, poi un comunicato congiunto di Italpetroli e della banca, escludono categoricamente un’offerta in petroldollari. C’è puzza di imbroglio. L’accostamento con Aabar porta il titolo As Roma a galoppare sul listino della Borsa di Milano. Vengono toccati dei record storici. Quando la bolla speculativa si sgonfia, la Consob indaga. L’offerta esiste sul serio. È riconducibile a Claraz SA, una finanziaria lussemburghese di cui però non esistono recapiti. Si sa solo che la Claraz si appoggia a Banque Privée Edmond de Rothschild Europe, un istituto di credito che nulla ha a che vedere con quella banca Rothschild advisor di Unicredit. Quindi? Qualcuno ha diffuso una notizia falsa. I legali dello studio DLA Piper, che assistono Claraz, diventano improvvisamente irrintracciabili. Il rischio è che la cordata americana scappi via. Non accade sia perché DiBenedetto ha una volontà di ferro, e sa che la sua proposta è quella migliore per l’As Roma, sia perché Unicredit si affretta a precisare che il progetto bostoniano «è il più competitivo». L’happy end è però ancora distante. Perché più passano i giorni e più la gente dubita della solidità della cordata americana. La banca è in difficoltà. A Piazza Cordusio sanno che DiBenedetto è un interlocutore serio e affidabile, ma la piazza romana si agita e si interroga.

In seno a Unicredit convivono anime contrapposte. Una di queste diffonde un messaggio: noi vogliamo il bene dell’As Roma, ma se l’operazione salta non è colpa nostra. Ecco perché lo si rivolge a Open Gate Italia. Che non è un ufficio stampa, ma una società specializzata in public affairs. In pratica, aiutano le imprese ad assumere le decisioni strategicamente migliori. Il presidente è Tullio Camiglieri, l’ex capo delle Relazioni Esterne di Sky Italia.

Sul dossier As Roma si tuffa uno dei suoi uomini. È Franco Spicciariello, che sta a Camiglieri come sta a Tonucci. La comunicazione di DiBenedetto passa ora attraverso Open Gate. Ed è un bene, perché l’immagine della cordata acquista immediatamente spessore. Vengono spiegati ai giornalisti le attività, i settori di interesse, le capacità finanziarie di DiBenedetto, D’Amore, Pallotta e Ruane. I romanisti restano affascinati dalla villa megagalattica di Pallotta a Weston, come dalla sua partecipazione alla franchigia dei Boston Celtics. Anche i più scettici si ricredono. Roma ha scoperto l’America. That’s amore. DiBenedetto lavora adesso su due fronti. Da una parte intavola una trattativa faticosissima con Unicredit, dall’altra forma la squadra che lo dovrà assistere una volta divenuto presidente. Mister Tom incassa il sì dei migliori manager su piazza: Franco Baldini, che a ottobre avrà un ruolo inferiore solo a DiBenedetto; Claudio , che a Lecce era un’istituzione, come amministratore delegato; quel vecchio lupo di mare di per la direzione sportiva. Il 29 marzo si raggiunge a Roma un’intesa di massima. Il 15 aprile, a Boston, si firma il preliminare di vendita. La società passerà agli americani in cambio di 70.3 milioni di euro. Unicredit resterà partner. Inizialmente al 40%, poi si defilerà. Per due volte si rischia che la trattativa vada a monte. La prima a metà luglio, due settimane dopo l’addio di Rosella Sensi al Cda dell’As Roma e l’elezione (il 4 luglio) di Roberto Cappelli a presidente ad interim. In un meeting a Londra cui prendono parte tutti gli attori, compreso Baldini, viene fatta presente la necessità di una maxi-ricapitalizzazione che possa garantire un futuro sereno al club. Gli americani sono d’accordo, ma osservano che la situazione finanziaria dell’As Roma è grave. Più grave, soprattutto, di come era stata descritta nella due diligence consegnata loro mesi prima. Viene contestato l’ultimo anno di gestione. Quello della banca. «Gli americani chiedono lo sconto », viene fatto sapere alla stampa. Non è così. La cordata vuole contribuire per il 60% alla ricapitalizzazione. Ma se deve spendere di più perché il quadro generale è cambiato in peggio, intende dare di meno alla banca per il prezzo di acquisto. Il ragionamento non fa una grinza: meglio investire più denaro per comprare le stelle o per pagare un venditore che peraltro resta socio e concede delle linee di credito (si è discusso parecchio anche sui tassi di interesse prestati)? L’accordo si trova in extremis. Quando però tutto pare filare liscio, a fine luglio l’affare vacilla per la seconda volta. Unicredit pretende che sia tutto definito per il 2 agosto. La banca si impunta: sia la riscrittura dei contratti, sia il versamento del prezzo di acquisto, devono essere completati per quel giorno. C’è una ragione: il 3, Fiorentino deve presentare l’accordo al Cda di Piazza Cordusio. Si media e il problema si risolve: preclosing il 3 agosto, closing il 18 agosto e sono tutti felici. Ormai è fatta. È fatta per davvero. Se oggi siete all’Olimpico, gettate uno sguardo sulla tribuna d’onore. Quel distinto signore là in mezzo che dell’Italia ama la cucina, la storia, l’As Roma, ha una faccia un po’ così. Una faccia da presidente. E se Alberto Sordi fosse ancora vivo, stasera forse non ci sarebbe stato un altro «america’, facce Tarzan». No, Nando Mericoni avrebbe fatto un’altra richiesta a mister Tom. Più romanista. Più da Albertone. «America’, facce sogna’». DiBenedetto è qui apposta.