Cancellate quella scritta infame!

27/03/2012 10:24

Roma, Torre Maura, esterno giorno. Un pomeriggio. Uno qualsiasi. Dal 4 giugno 1989 sono tutti uguali i pomeriggi in casa De Falchi. Anna, la sorella di Antonio, cade dalle nuvole. Non sa nulla. «Che hanno scritto? Ancora? No, ancora?». Torre Maura, Roma, dappertutto è Primavera. Tranne qui. Tranne in casa De Falchi. Anna non ha visto la foto. Quella foto. Quella scritta. Quella aggiunta, anzi, a una scritta che non aveva affatto colore: De Falchi vive. Punto. Messaggio semplice, lindo, trasversale, da cuori tifosi, prezioso come l’"onore a De Falchi e Di Bartolomei" della Nord laziale anni fa in risposta al ricordo di Paparelli della Sud romanista. Anna non ha letto nulla. "De Falchi vive sottoterra". Il fratello Antonio l’hanno ammazzato lì, a pochi passi dalla scritta, quasi 23 anni fa. Morto ammazzato in un’imboscata, tradito dall’accento romano, addosso aveva la maglia della Roma. «Non vorrei più tornare su questa storia. Mi fa troppo male. Dopo tanti anni si riaprono delle ferite che per la nostra famiglia non si sono mai chiuse», dice Anna. Roma non ha mai dimenticato Antonio. La sorella sospira: «È vero, ma il dolore è tutto nostro». Sono trascorsi ventitré anni, ma non a casa De Falchi. Qui il futuro non è mai arrivato, qui il presente continua a rinnovarsi nella convinzione che il 4 giugno 1989 non c’è mai stato. Qui è rimasto tutto come allora. «Ho appena terminato di spolverare la sua cameretta», spiega Anna, «qui non è cambiato nulla, ci sono ancora i poster della Roma dell’82, quelli dell’86...».

La giovinezza di Antonio è racchiusa in quattro mura, la sua stanza, i suoi ricordi. Il passato non ha scalfito la memoria, offesa da un colpo di spray. La memoria. Che manca, forse. Manca al Milan, che oltre a non sapere nulla della scritta, probabilmente ignora pure quello che accadde il 4 giugno 1989. «Sa, c’è Milan-, pensiamo a quello...», rispondono lassù. Ok, c’è MilanBarcellona. Ma per noi romanisti c’è Antonio De Falchi. Fate una nota, comportatevi come la Roma, che ha censurato i cori su Pessotto. Ma soprattutto cancellate quella scritta. Una scritta atroce, come è stata giustamente definita ieri su qualche sito. «Ci mandi il link», chiedono a Milano. Fatto. "De Falchi vive sottoterra". Luca Bonalda invece vive sopra la terra. Nel ’92 la Corte di Cassazione ha confermato la condanna della Corte d’Assise d’Appello a 7 anni di reclusione. Omicidio preterintenzionale. In pratica, per i giudici la morte è stata una conseguenza non voluta. Vent’anni dopo, a casa De Falchi la rabbia non si è spenta.

La memoria manca a chi non sa nulla del 4 giugno 1989, non certo a chi quel dramma lo vive ogni giorno. Quel 4 giugno 1989 Antonio arriva presto a Milano. L’orologio della Stazione Centrale segna le 8.30. Ha viaggiato assieme ad altri 40 tifosi della Roma. Decide di andare prima a San Siro. L’agguato ha un’ora e un posto precisi: le 11.35, al cancello 16. Si avvicina un tipo, gli chiede una sigaretta. Poi l’orario. È il trucco dei vigliacchi, è lo stratagemma per capire se sei milanese. O no. O no, come Antonio. All’improvviso saltano fuori da dietro una costruzione una ventina di persone, anche se c’è chi sostiene che fossero di più. Antonio prova a fuggire, ma cade e viene raggiunto da una sequenza di pugni, schiaffi, calci. Trenta secondi, quaranta forse, bastano per spegnere una vita di 18 anni. La polizia interviene, Antonio si rialza. È un momento di lucidità. L’ultimo. Diventa cianotico, crolla a terra, un agente tenta la respirazione bocca a bocca. È il tentativo estremo di salvarlo, ma fallisce. Antonio De Falchi arriva già morto all’ospedale San Carlo. Arresto cardiocircolatorio, secondo l’autopsia. Un infarto. Per i medici, il cuore di Antonio non avrebbe retto allo stress. Alla paura di venire ucciso. Balle, appaiono agli amici. Ai romanisti. A tutti i romanisti.

Eppure il pm di allora è uno tosto. Si chiama Pietro Forno. Adesso è procuratore aggiunto a Milano, ma a cavallo degli anni 70 e 80 è stato in prima linea contro il terrorismo, sia di matrice fascista, sia brigatista: i Nar, Prima linea, i Proletari armati per il comunismo di Cesare Battisti. Forse perché l’autopsia non lega però la morte di Antonio alle percosse. O almeno, non in maniera diretta. Fatto sta che Forno non chiede l’omicidio volontario per i quattro imputati (quattro, nonostante l’aggressione sia stata compiuta da almeno venti persone!). Si limita al preterintenzionale. Dal latino: oltre l’intenzione. Tutti assolti, tranne uno. Luca Bonalda viene condannato a 7 anni di reclusione. Nella sentenza della Corte d’Assise presieduta da Renato Samek Lodovici si parla di «atti diretti a commettere in danno di De Falchi Antonio il delitto di lesioni volontarie, colpendo quest’ultimo con pugni e calci, cagionando la morte del medesimo avvenuta per arresto cardiaco conseguente al trauma psichico». Il colmo? Nell’ultima parte del dispositivo si legge: «con le aggravanti dell’aver commesso il fatto in più di cinque persone». Più di cinque persone. Il tribunale ammette quindi che gli assassini di Antonio erano più di cinque. Però ne giudica quattro. E ne condanna uno. Uno solo. Luca Bonalda se la cava con 7 anni e la libertà provvisoria, gli altri vengono assolti per insufficienza di prove.

In casi come questi, di ingiustizie conclamate, si dice che un uomo muore due volte. È la retorica dell’ingiustizia? Forse. Ma andatelo a dire a mamma Esperia, che sopravvive a fatica alla morte del figlio. «Me l’hanno ammazzato. Antonio, Antonio mio, bello de mamma. Ma perché? Perché l’hanno fatto... Perché l’hanno fatto?», dirà ai funerali. C’è Nela che piange, l’abbraccia, sulla bara di Antonio c’è la sua maglia. Per i diecimila che quel giorno piangono con Sebino, c’è una storia che non si dimentica. È il significato vero di quella scritta a Milano. "De Falchi vive". Ma levate l’aggiunta. Cancellatela. Fatelo subito