Il Tar: Questura, leva quel daspo

07/07/2012 11:03

Colpito da un daspo di tre anni, Valerio finisce alla sbarra. I fatti non importano in questo contesto, quello giornalistico. Importano, anzi importavano, in sede processuale. E’ lì che il daspato Valerio viene assolto. Secondo i giudici, non ha commesso i fatti per i quali è stato daspato. Una volta che la sentenza diventa definitiva, il suo avvocato prende carta e penna e fa la cosa più ovvia del mondo. Chiede alla , che ha sede a via San Vitale, di revocare il daspo. Epic fail. Il legale, il Batman delle curve, si sente rispondere che per i poliziotti quei fatti sono stati commessi da Valerio. E quindi il daspo resta. E perché, se dei giudici hanno stabilito che non è vero? Può l’autorità amministrativa emettere dei provvedimenti interdittivi al posto di quella giurisdizionale? Sì, in questo benedetto assurdo Belpaese sì. Può. Ma non può permettersi di accertare la verità al suo posto. Cavolo, ragazzi, è Montesquieu. E’ il principio della separazione dei poteri. Legislativo, esecutivo e giudiziario. «Non vi è nemmeno libertà se il potere giudiziario non è separato dal potere legislativo e dall’esecutivo». Questo l’autore de “Lo spirito delle leggi” lo scriveva circa trecento anni fa. Il fatto di essere riportato su un pezzo di carta, invece che su , deve avere contribuito a limitare la fruibilità del concetto. Quando la comunica a Contucci che Valerio non andrà comunque per tre anni allo stadio, l’avvocato ricorre al Tar del Lazio. I giudici amministrativi spiegano che per adottare un daspo «è rilevante l’accadimento di determinati fatti (…), i quali si profilino rivelatori - ex se - di pericolosità» e non quindi «una generica pericolosità sociale del soggetto, ma quella specifica che deriva proprio dall’assunzione di determinate condotte nell’ambito di rilevanza, ossia le competizioni sportive». In sostanza, il Tar dice: non conta se Valerio è o no un ultras, conta che abbia o non abbia compiuto il reato connesso a una manifestazione sportiva per la quale era stato processato e assolto e per il quale in precedenza era stato daspato.

Tra le righe della sentenza, i giudici amministrativi lasciano trasparire la loro incredulità: «E’, pertanto, evidente che l’adozione di un provvedimento di divieto di accesso agli stadi deve - in ogni caso - poggiare su elementi concreti, idonei a ricondurre la commissione dei fatti contestati al destinatario del provvedimento». Elementi concreti. Il punto è questo. Nel caso di Valerio, ammonisce il Tar, «è doveroso affermare che sono venuti meno, atteso l’esito del giudizio instaurato per la condotta descritta nel provvedimento impugnato, conclusosi con una sentenza di assoluzione “per non aver commesso il fatto”». Poi si passa al rimprovero. Il Tar bacchetta la di Roma: «Ciò detto, l’Amministrazione (la , ndr) non poteva esimersi dal tenere adeguatamente conto di tale circostanza (…). E’ doveroso pervenire alla conclusione che l’Amministrazione non ha correttamente operato». Non poteva esimersi dal tenerne conto, scrivono i magistrati. Invece è proprio quello che è successo. «Trovo allucinante – dice l’avvocato Contucci a Il Romanista – che in uno Stato democratico la non riconosca il valore di sentenze definitive di assoluzione. Non accade neanche nei regimi totalitari». Mica vero, avvocato, nello Stato di polizia capita. Anzi, nello Stadio. Chissà cosa direbbe Montesquieu.