Capello: La vergogna più grande? La vissi a Roma, per colpa degli ultrà
26/08/2012 13:52
Si è friulani per sempre, come per sempre si è calabresi o piemontesi, però il disegno delle geografie è tutto scompaginato. Forse si chiama modernità. «Ho cominciato a girare il mondo da ragazzino, l´ho proprio visto cambiare. Quando sento dire globalizzazione, penso anche alla fine di certi odori, di certe particolari sensazioni che erano legate a quel preciso luogo e a nessun altro». Ne ha cercati tanti di odori nuovi, Fabio Capello, nella sua storia di calciatore e allenatore. A decine. L´atlante non è fermo a nessuna pagina, il vento lo sfoglia senza tregua.
Anche la scelta di guidare la Russia a sessantasei anni, dopo essere stato il manager della nazionale inglese (che è come dire insegnare il calcio a quelli che l´hanno inventato ai tempi dei palloni con i lacci, e se ne sentono ancora gli unici depositari e custodi), è a suo modo una carta geografica. «Il paese è immenso, sterminato. La prima cosa che devo fare è conoscere, guardare le partite e i giocatori, non si smette mai». Dalla finestra del suo albergo a Mosca, soluzione temporanea, si vedono palazzi e viali infiniti, nulla però che possa identificare Mosca come luogo particolare. Un segmento di mondo, una porzione di futuro replicato e replicabile ovunque.
Tuttavia, è nella sfumatura delle differenze che va cercato il senso di una scelta, e quella di Capello è complessa: essere il padrone di un sistema sportivo (questo è da sempre il suo approccio, non si cambia a quasi settant´anni) ormai tra i più potenti del pianeta, con i denari degli oligarchi, dei gasdotti e la forza organizzativa di un antico colosso. L´obiettivo tecnico è raggiungere il mondiale del 2014 in Brasile, quello politico è sorprendere il mondo nel 2018, quando la coppa tutta d´oro sarà consegnata proprio a Mosca, dentro lo stadio Lenin. Impossibile dire se Capello, quel giorno, sarà ancora al comando di una squadra talentuosa e matta, piena di risorse ma capace di incredibili cadute (all´Europeo ha mostrato un gioco sensazionale per un paio di partite, poi è stata eliminata al primo turno); però è altrettanto impossibile dire con certezza che lui non ci sarà.
Fabio Capello non è solo un grande allenatore, è anche un osservatorio particolare. È un punto di vista geograficamente lontano dall´Italia, sebbene vicinissimo. Quello che ci vuole per leggere i segni del campionato cominciato ieri, ma anche per capire cosa si vede del nostro sport da una certa distanza, e forse del nostro paese. Lui non è diplomatico, è anzi aspro e per nulla accomodante. Non è facile stabilire un contatto, ma quando la cosa accade non si resta delusi. La settimana di Fabio Capello è iniziata a Marbella, dove lui ha casa da molti anni («Non posso sempre fuggire da mia moglie per parlare di calcio e per guardare calcio, in un matrimonio che funziona si scende a patti»), l´ha proseguita a Stoccolma e l´ha conclusa in Russia, non limitandosi ad annusare l´aria in cerca di ricordi o nuove piste, come un cane da caccia che da una vita non smette di braccare la sua preda: il pallone, probabilmente, ma non solo.
Capello, che Italia si vede dalle sue parti?
«Una premessa: io sono molto orgoglioso di essere italiano, dunque soffro per quello che succede nel mio Paese, un tempo stimato e oggi svilito. Ci ammiravano tutti, ora invece non ci capiscono più, perché si accorgono della nostra generale confusione. Da lontano, e talvolta pure da vicino, l´Italia è una specie di magma».
La sua scelta di allenare all´estero è solo una faccenda di contratti, di mestiere?
«In Spagna, in Inghilterra si sta meglio, ogni cosa è più semplice. Forse anche in Russia, saprò dirvi. Noi abbiamo le regole ma non le facciamo rispettare, gli altri sì. Siamo egoisti. Nella civiltà degli ipermercati, pensiamo solo alla nostra piccola bottega e ai suoi interessi. Anche in politica è così: siamo provincia, ma non nell´accezione positiva del termine. E non va bene. La burocrazia ci uccide».
Perché egoisti?
«Perché nella soluzione di un problema ci interessa solo la convenienza personale: è quella, la soluzione. Siamo puliti in casa nostra e sporchi per strada: scivoliamo sulle pattine per non rigare il pavimento dell´ingresso, ma poi gettiamo la carta per terra appena girato l´angolo, o fuori dal finestrino dell´auto. Vi sfido a trovare un sacchetto sull´erba di un parco di Londra: impossibile. Eppure, ci vivono otto milioni di persone».
L´Italia si sta impoverendo, lo sport può essere una chiave di lettura?
«Mi chiedo perché mai un investitore straniero dovrebbe portare da noi i suoi soldi. In Inghilterra è successo e questo ha salvato il football. In Italia non si può neppure costruire uno stadio di proprietà, ci vogliono secoli, la Juve ha fatto un miracolo. La legge vieta persino di metterci un ristorante: burocrazia insensata, ancora. Negli stadi inglesi si sta come in albergo, e loro avevano gli hooligan, hanno avuto l´Heysel. Noi potevamo sfruttare l´occasione di Italia 90, invece abbiamo costruito stadi con le piste d´atletica, inutili, solo per accontentare qualcuno, per i giochi di potere».
Il campionato inizia senza grandi stelle, ma con qualche giovane in più: un cambio svantaggioso?
«I kolossal non reggono senza i grandi interpreti. Siamo più poveri, i migliori se ne sono andati. Mancherà l´esaltazione dello spettacolo. I giovani rappresentano una risorsa, però bisogna avere il coraggio di farli giocare, serve la pazienza di aspettarli. Un talento come Marco Verratti è passato direttamente dal Pescara a Parigi: auguri, è un doppio salto mortale senza rete».
Ancora non si è conclusa la stagione degli scandali, i tribunali impazzano. Ne usciremo mai?
«Vorrei che si potesse di nuovo parlare solo di calcio, ma come si fa? Quello che è successo è terribile, inspiegabile, anche se certe decisioni mi lasciano molto perplesso. Mi piacerebbe che i giocatori capissero che hanno tutto e non possono rovinarsi la vita facendo stupidaggini: c´è stato un vuoto, questi ragazzi li abbiamo lasciati troppo soli. Noi allenatori, e anche i procuratori che ormai sono le persone a loro più vicine. Anche le famiglie, certo, ma spesso i genitori sono gli ultimi a sapere».
Il calcio è ancora un posto dove far crescere figli e nipoti?
«A volte me lo domando. Quello che non accetto è il ricatto degli ultrà: alcuni club sono troppo deboli e ne diventano ostaggio. La più grande vergogna della mia carriera da allenatore la vissi a Roma, dopo un´eliminazione in Coppa Italia contro l´Atalanta: gli ultrà vennero a parlare nello spogliatoio, ne dissero di tutti i colori, sembravano loro i padroni. Come quell´altra volta, quando bloccarono il derby dell´Olimpico. O come a Marassi, quest´anno, quando hanno obbligato i giocatori del Genoa a togliersi le maglie: una scena incredibile, tristissima. Ecco, cose del genere all´estero sono impossibili».
Peggio la violenza o la corruzione?
«Anche la corruzione è una forma di violenza. Abbiamo le regole e non le facciamo rispettare. Mai vista in Italia una partita sospesa per il lancio di fumogeni, o per uno striscione d´insulti. Mai visto sequestrare le magliette taroccate sulle bancarelle, invece in Inghilterra tutti i tifosi vanno alla partita con la maglia ufficiale del loro club, nessuno evade le tasse grazie a un piccolo gesto di civiltà anche fiscale».
Passiamo a cose più banali. Chi vince lo scudetto?
«La Juventus era già la più forte, anche se non doveva faticare nelle coppe, e adesso le altre si sono quasi tutte indebolite. Inter e Milan sono cantieri aperti: fino all´ultimo minuto di mercato possono inventare qualcosa, però mi sembrano indietro. Il Napoli pareva la forza nuova, tuttavia la partenza di Lavezzi non è cosa da poco. La Roma mi incuriosisce, ha questo famoso progetto, l´aveva anche l´anno scorso ma è rimasto sulla carta, vedremo adesso con Zeman».
Capello, quando si è alla guida di un gruppo è più difficile capire o farsi capire?
«Capirsi, tra persone di media intelligenza e buona volontà, non dovrebbe mai essere un problema. Farsi seguire è diverso, serve il carisma e i calciatori intuiscono subito se ce l´hai o no. Ti studiano in ogni momento, un allenatore è sempre sotto esame, ne deve sostenere almeno un paio a settimana. Ci sono miei colleghi che trattano con i guanti i campioni, e a pesci in faccia gli altri: io non faccio differenze, anche se so che non sono tutti uguali, altrimenti sarei un deficiente. Non sopporto gli yes men: tra i collaboratori non ne voglio. Niente di peggio di quelle riunioni dove non si discute mai, perché tutti danno ragione al capo».
Eppure dicono che lei, con i giocatori, sia un pezzo di ferro.
«Non è così. Prima parlo con la squadra, poi chiedo se qualcuno ha qualcosa da dire, se è tutto chiaro. Anche sul piano personale credo di essere aperto. Non amico, aperto. Venite, ditemi, posso aiutarvi: lo ripeto ogni volta, e la porta del mio ufficio è sempre aperta».
Non può essere un caso se tanti allenatori italiani lavorano all´estero, quasi tutti con successo: siamo ancora maestri di sport? Lontano, ci riesce meglio?
«Andai via di casa a quindici anni e so che ogni viaggio è una ricchezza. Chi si muove migliora, perché spalanca la mente. I tecnici italiani conoscono il mestiere, capiscono le situazioni, sono i più esperti e i più preparati. Sanno dove mettere le mani con fantasia e competenza, e soprattutto sanno incollare i cocci».
Dovrà farlo anche lei, dopo quell´eliminazione della Russia all´Europeo.
«Il primo obiettivo è che i miei giocatori riescano a giocare bene non solo due o tre partite di seguito, ma possibilmente qualcuna in più. Le risorse non mancano, il lavoro nemmeno. Questo è il bello della sfida».
E poi, un appassionato di musei come lei, in Russia può diventare matto dalla contentezza.
«C´è il problema non da poco del cirillico, però con un bravo interprete si supera».
Non la prenderanno in giro per via della lingua, stavolta? Non ci sarà un altro Rooney a criticarla? Il centravanti del Manchester United non fu tenero con il suo inglese.
«Per carità, è acqua passata, quelle erano battute che convenivano a chi non voleva capirmi. Ormai sono un vecchio navigante e conosco tutti i mari».