La recita del maestro Zeman incanta San Siro

03/09/2012 12:13


e riposto altrove. «Sono felice se la gente vuole un calcio vero, pulito, e con spettacolo». Zeman è talmente Zeman da avere fatto bere a una pozione magica, probabilmente il contenuto della bottiglietta d’aranciata che il boemo si porta appresso come un amuleto, o come un biberòn, e il risultato è che corre e gioca come il figlio di .




Il lancio per il secondo gol scucchiaiato da Osvaldo (Osvaldo è talmente da segnare ormai come lui) è un filmato d’epoca a doppia velocità, uno strappo di futuro che arriva da lontanissimo. Il capitano ragazzino (
«Abbiamo le carte in regola per un grande campionato») insieme all’allenatore con la pelle rugosa da indio, con l’espressione immobile da capoccione dell’Isola di Pasqua, insomma da Zeman: è tornato, può non piacere a chi lo odia, ma lui non fa mai niente di normale. E quando arriva, ci si diverte. A San Siro lascia il segno lanciando un ragazzino (, gol), dando forzatamente spazio a Marquinho (gol) e facendo regredire magnificamente nel gesto che l’ha reso celebre: l’assist (due su tre).

Zeman è talmente Zeman da abbattersi come una nemesi sul povero, giovane Stramaccioni che si dichiara un fan delle sue rughe, una per una. L’ha definito un maestro irripetibile e inimitabile, detto da lui che è romanista è più di un omaggio, è il riconoscimento - appunto - di un magistero. In effetti la Roma comincia proprio a essere zemaniana, per una volta solo nella metà giusta, dal centrocampo in su: la difesa non ha avuto bisogno di farsi elettrizzante, per quello c’era già l’Inter, ed è caduta solo per una carambola di Cassano: anche lui ha fatto parte di questa strana epopea travestita da partita, piena di incroci, Zeman che torna e vince, che rinasce, Cassano che nel suo girovagare si ritrova di fronte un pezzo di passato, anche se stavolta il più passato sembra lui.

«Voglio ritmo e aggressività: possiamo mettere in difficoltà tanti. Ci siamo abituati a soffrire, commettiamo errori ma rimediamo. Noi non dobbiamo sognare, ma lavorare per far sognare gli altri». Zeman è talmente Zeman da avere provocato smottamenti nella difesa dell’Inter, voragini e ritardi, vuoti assoluti e vane rincorse. Forse, non facendolo neppure apposta, non del tutto. Il primo gol della Roma è un elogio della solitudine (segna , ex allievo giallorosso di Stramaccioni, nemesi-bis), il secondo è una coltellata di (lui il coltello, Osvaldo il cucchiaio sopra una tavola apparecchiata malissimo), il terzo è una sparizione di Silvestre, che pure era rimasto l’ultimo dei fantasmi a non scomparire, invece poi è evaporato tutto d’un colpo. Per dirla tutta, una lezione di calcio del vecchio tecnico al giovane, un film muto (è la silenziosa eloquenza di Zeman) ma a cadenze rapidissime, un po’ comica alla Ridolini (l’Inter, quando prova a difendersi) e un po’ kolossal d’azione, tutto ritmo sincopato. Nulla di prevedibile dentro la Roma, nulla che lasci indifferenti. Forse è proprio questa la forza del boemo, e della sua faccia di pietra erosa: lasciare un segno, sempre. Ferire, con le parole o con le frecce disegnate su una lavagna e poi scoccate sul campo. L’Inter, in mezzo a quella pioggia di dardi, pareva un San Sebastiano senza aureola.