04/02/2013 09:39
In realtà, laddio a Zeman evoca altri due strappi fondamentali (benché con motivazioni diametralmente opposte e mi si perdoni la considerazione, con uomini di spessore diverso) nella storia della Roma: quello con Fulvio Bernardini e quello con Helenio Herrera. Nel giugno del 1949, Renato Sacerdoti e Meloni contattarono Fulvio Bernardini per consegnargli la guida della squadra. Bernardini incarnava il sogno di rivedere a distanza di tanti anni il risorgere della grande Roma testaccina di cui Fulvio aveva incarnato il vessillifero più grande. La tifoseria affrontò quel momento con un misto di gratitudine e tripudio. Il ritorno di Bernardini sembrava, anche psicologicamente, chiudere il periodo drammatico e tragico degli anni della guerra. Con lItalia che si avviava a grandi passi verso la ricostruzione prima e il boom economico poi, lavvento di Fuffo era, allo stesso tempo, il ritorno alla parte migliore del passato e la promessa di un futuro che sposava il nuovo e lavvenire. Fulvio, che arrivò sulla scorta di un contratto che ricalcava il minimo sindacale: 175.000 lire, provò, sin da subito a mettere la propria impronta sulla campagna acquisti facendo ingaggiare Tre Re, Zecca, Merlin, Spartano, Bacci, Lucchesi, Cardarelli, Benedetti, Malaspina, il nazionale Arangelovich ed altri. Il risultato della campagna rafforzamenti, però, era tuttaltro che scontato e Fulvio chiese ed ottenne la promessa di poter sviluppare il suo programma di lavoro nellarco di un triennio. Per ciò che riguarda la formula di gioco pretese un forte svecchiamento che passò anche attraverso ladozione del sistema con relativa velocizzazione della manovra e apertura allo sfruttamento del gioco negli spazi liberi. Supportato da Bodini come allenatore in seconda, dal responsabile delle giovanili Brunella, dai preparatori Fornari e Riccioni, e dai massaggiatori Cerretti e Cesaroni, Bernardini iniziò il suo impervio cammino.
Lutopia bernardiniana, nonostante alcune luminose fiammate stentava a decollare e la Lupa si dibatteva nei bassifondi della classifica. La squadra, soprattutto nella persona del capitano Andreoli, rimase sempre al fianco del proprio allenatore, eppure non mancarono alcune situazioni problematiche. Cera ad esempio da fare i conti con la gestione non facile del Petisso Pesaola, che molti anni più tardi, Bernardini ricordava così: «Il Petisso ha un passato quasi glorioso come giocatore della Roma. Personalmente lho avuto nella stagione 49/50 e ricordo che odiava due cose: 1) Gli allenamenti di mattina 2) Viaggiare a piedi od in autobus, stava tutto il giorno su un taxi. Gli piaceva dormire fino a tardi ed una volta che non venne all allenamento andai a trovarlo dove abitava, in Via Giulia in una stanzetta carina di una casa di tipo storico. Un tipo allegro e un po bohemien come lui poteva abitare solo in Via Giulia». In questo contesto così disastrato, lepilogo, abbastanza scontato, anche se soffertissimo, fu quello dellesonero. La lacerazione allinterno della società coinvolse anche la tifoseria che si schierò apertamente dalla parte di Fulvio, ma questa generosa mozione degli affetti rimase purtroppo improduttiva. Mentre Fulvio si avviò a proseguire la sua carriera da allenatore dimostrando di essere lunico in grado di strappare, per ben due volte, lo scudetto ai soliti noti, il sogno di rivederlo in giallorosso fu destinato a rimanere una chimera. Prima Alvaro Marchini (in maniera estremamente concreta tanto che si consumò anche un incontro a casa Bernardini in cui laccordo sembrò definitivamente raggiunto) e quindi Dino Viola (a dire il vero in modo del tutto programmatico, quasi a livello di auspicio), pensarono a riportarlo sulla panchina della Lupa, ma come detto, laddio del 1950, rimase definitivo.
Da Bernardini, vero e proprio cuore di Roma, passiamo ad Helenio Herrera. Il suo arrivo nella capitale, a cavallo tra il passaggio di consegne tra la gestione (quantomeno per quello che riguarda lo stile di conduzione) di Franco Evangelisti e quella di Alvaro Marchini, suscitò unondata dentusiasmo come raramente si era visto nellultimo decennio della storia romanista. Herrera sembrava il passaporto migliore per il passaggio dalla rometta senza ambizioni del piccolo cabotaggio, a una Roma vincente in Italia e in Europa. Quello che non si era in grado di realizzare con la programmazione e con ladozione di un vero piano industriale calcistico, sarebbe insomma stato conquistato grazie al Mago e alle sue intuizioni istrioniche e sciamaniche. Le suggestioni date dal Mago Herrera, anche con la complicità della stampa che vide nellex tecnico dellInter un formidabile alleato per aumentare la tiratura, imprigionò in un sortilegio devastante il club.
Il puzzle iniziò ad andare in mille pezzi, frantumando anche la bacchetta magica di H.H., dopo una brutta sconfitta contro il Torino, nel gennaio 1971. Con sulle spalle un mortificante 4-0, Marchini si recò allaeroporto per accogliere la squadra. Appena sceso dalle scalette Herrera investì il presidente evocando la sfortuna e chiamando in causa la deconcentrazione della squadra. Una riunione venne tenuta immediatamente in una saletta dell aeroporto di Fiumicino. Il giorno seguente i giornali titolarono ad otto colonne denunciando la volontà di Marchini di volersi sbarazzare del Mago. Ed effettivamente il presidente, anche in considerazione delloneroso contratto del tecnico, aveva maturato questa decisione. Inizialmente, comunque, come racconta lo stesso Marchini, scelse una strada intermedia: «Convocai lallenatore nel mio ufficio e gli spiegai che non intendevo rinnovare il contratto fin da ora. Lo invitai ad occuparsi di più della squadra e se i risultati fossero stati soddisfacenti non avrei avuto nulla in contrario a riconfermarlo, purché la smettesse di crearmi difficoltà nei confronti dei tifosi e della stampa. Gli dissi inoltre, con molta chiarezza, che il nuovo eventuale contratto non sarebbe stato come il precedente, perché la Roma non poteva sobbarcarsi un onere tanto pesante».
Herrera per tutta risposta disse a Marchini che lui era squalificato sino al 30 aprile e che quindi non era: «il mio presidente non può darmi ordini. Io ho con me tutti i tifosi. Sono io il più forte quindi stia bene attento». Marchini cacciò in malo modo il suo recalcitrante allenatore sancendo linizio di una vera e propria guerra intestina. Paradossalmente lepilogo dello scontro arrivò dopo una vittoria contro il Cagliari. La stessa squadra che in un match interno ha decretato la fine dellavventura di Zeman, ha deciso anche il destino di Don Helenio. Dopo la vittoria maturata il 4 aprile 1971 con il gol di Cappellini, Herrera dichiarò che solo lui avrebbe potuto dare lo scudetto alla Roma. Nel 1942, infatti, secondo lui, solo con laiuto di Mussolini era stato possibile centrare quellambizioso obiettivo. Alvaro Marchini, davanti ad una tale, mostruosa, idiozia fece lunica cosa che un presidente della Roma avrebbe potuto e dovuto fare. Convocò Herrera in sede e gli comunicò lesonero che lindomani venne ufficializzato anche davanti alla stampa dal Vicepresidente Dino Viola. Herrera concluse questo suo folle periodo dichiarando che Herrera aveva venduto i tre gioielli (Capello, Spinosi e Landini), per ordine di Berlinguer. Un altro paragone rispetto alla vicenda Zeman che si potrebbe imbastire è quello con lesonero, durante il suo terzo mandato, di Nils Liedholm. Un tentativo che però lascia il tempo che trova, visto che il Barone, in quel periodo aveva ormai già speso le sue energie migliori e si arrese a quellevento come ad una conseguenza ineluttabile.
Per Zeman il discorso è diverso e il colpo, estremamente duro, non sarà facile da assorbire. La Roma, però, nellarco della sua storia, è sempre stata capace di ripartire, glielo impone la sua storia, i suoi tifosi, il suo nome.