Risultati e analisi dei pixel

18/02/2013 14:52



C'era una volta la favola delle matricole o delle provinciali che terrorizzavano le big. Non è questo il caso. Perché la Roma di Zeman prima e di Andreazzoli poi ha valori assoluti che fanno pensare come le vittorie contro le big del campionato siano figlie della capacità di potersi confrontare con le massime espressioni del calcio nostrano. E se la Roma è ottava (nona fino a pochi giorni fa) lo si deve all'incapacità di dare continuità. Sfuggita causa ricerca ossessiva di un adeguamento a compiti che, numeri alla mano, non si confanno alle caratteristiche di un gruppo che ha lavorato troppo per la materia alchimia e si è dedicato poco alla psicologia, alla ricerca della propria essenza. Un gruppo fragile e per certi versi mal costruito sotto il velo della normalità può trovare la chiave di volta, il cui possesso arriva necessariamente attraverso il percorso meno tortuoso, più semplice. Facendo di necessità virtù mollando rivoluzioni, culturali e tattiche, e imparando a camminare prima ancora che a correre.



E poi c'è il risultato. Se da sabato poco prima della mezzanotte si scandagliano i pixel delle foto sul web ricercando la smorfia di euforia e di soddisfazione di questo o quel calciatore, modello 'occhio della madre' di fantozziana memoria, se si esalta la sagacia tattica di Andreazzoli che ha imbrigliato Madama al punto da consentirle solo due tiri in porta, uno nello specchio, su punizione di Pirlo, bene intercettato da Stekelenburg, l'altro fuori di poco, su botta da fuori area di Vucinic, se si può celebrare l'ennesima prodezza balistica di (chapeau!), lo si deve al risultato. Colonna portante dello sport calcio, colpevolmente assente negli ultimi sedici mesi, ridotta al rango di futile dettaglio da chi per troppo tempo ha parlato coniugando i verbi al futuro badando poco al presente. Che ha rischiato di bruciarsi (e in parte rischia ancora) se proprio il risultato, e una classifica dignitosa, non fosse stato perseguito con sacrificio da chi per troppo tempo ha badato troppo ai personalismi e poco alla causa comune. E nessuno si senta escluso: dirigenza, allenatori, calciatori.



La piazza? Intesa come tifosi non ha colpe, né bisogno di alibi. Ha tifato fino a perdere fiato, permettendosi di fischiare solo all'alba del centesimo gol subito in un campionato e mezzo. Roba da far impallidire la pazienza dei santi. La piazza va esclusa. Intesa come tifosi. I media? C'erano e ci saranno. Come in altre realtà. Più voci e penne che in altre realtà. Voci e penne, non scudisci e mitragliatori. A Torino come a Milano, come a e Firenze, quando le cose vanno male le analisi partono dalla discussione dell'operato degli allenatori, di chi li assume, di coloro che giocano la domenica. Niente di diverso da ciò che accade a Roma. Se qualcuno eccede, millantando o sobillando, alterando la realtà, scadendo persino nel penale, venga semmai isolato da chi di dovere. Purché non divenga un alibi.



Se il calcio di Serie A si definisce professionistico lo si deve non solo agli stipendi corposi. Ma soprattutto alla capacità di dover superare momenti difficili, critiche accese se non feroci, malcontento dei tifosi. E il risultato fa la differenza, il risultato fa saltare gli ostacoli senza penalità. Il risultato indirizza. Fino al punto che dopo una vittoria si possa esaltare, nel commento al film della partita, il montaggio analogico e la scena della culla. Senza essere indotti a farlo in ginocchio sui ceci. In modo spontaneo, voluto.





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