31/03/2013 13:00
Andreazzoli l'aveva detto: La tratteremo come una squadra da scudetto'. Ma è stato lui il primo a non farlo allestendo lo stesso modulo con cui aveva vinto col Parma, un modulo che può andar bene all'Olimpico, che può essere adatto per stanare chi si chiude e che può persino commuovere per la sua derivazione spallettiana (due incursori dietro Totti): ma non può funzionare per le trasferte in cui c'è da star stretti, correre, improvvisare, coprire, soffrire, segnare. Non è a Perrotta che si può chiedere altro sangue. Non è a Totti che si può domandare di inseguire gli avversari sino al limite della propria area (e l'ha fatto). Non è a Lamela e Marquinho che si può imporre costantemente il doppio ruolo: perché alla fine non riusciranno a svolgere nemmeno uno dei due compiti. Mossa dai suoi poteri occulti, schiacciata dalle sue ormai note difficoltà genetiche, imprigionata nella personalissima interpretazione di Jekyll e Hyde, la Roma è franata per un'ora non riuscendo mai a raddoppiare sulle fasce, colpita a morte da Ilicic e Miccoli, Barreto, Morganella, Kurtic, che invece erano sempre uno in più, aiutata da due pali (di Miccoli e Kurtic). E' rimasta appesa alle pachidermiche movenze della sua difesa orfana di Marquinhos, impoverita nei numeri e fiaccata da morbi individuali (la reattività di Burdisso sulla rete di Miccoli era zero). Il 2-0 del primo tempo, con un Palermo capace anche di esprimere un buon gioco, rispecchiava il rendimento in campo. Padroni di casa agili e Roma pesante, insulsa sotto porta, che spacciava la propria instabilità per mobilità. Per due volte Marquinho è arrivato sul pallone accecato, prima dal sole e poi dalla mancanza di concentrazione (ha lisciato il pallone mentre avrebbe dovuto calciare a colpo sicuro). Persino Totti, da posizione favorevole, ha sbagliato l'impatto dalla breve distanza.