Piedone Manfredini: «Garcia? Faccio il tifo per lui»

14/06/2013 11:11

IL ROMANISTA (M. IZZI) - Andrea Cappelli è una delle ombre che mi anticipa a Porta Portese (l’altra risponde al nome di Gabriele Pescatore), ogni qual volta sento di vendite particolarmente interessanti legate alla Roma, sul tipo: «Questa mattina ho venduto 100 “Roma Mia”, 200 “Giallorossi” e “16 Roma Sport”», l’immancabile titolare della bancarella di turno aggiunge il suo nome: «E’ passato Andrea». E li ha comprati, aggiungo io. Andrea, però, è anche un grande amico e un paio di giorni or sono mi fa: «Massimo guarda che sono stato allo stabilimento Tibidabo, a Ostia. Ho fatto una bella chiacchierata con Pedro Manfredini, fossi in te farei un salto». L’imbeccata non può andare disattesa. All’alba m’imbarco a Piramide e scendo alla fermata Stella Polare. Dopo pochi minuti sono nello stabilimento alla ricerca di Pedro. Suo nipote, tifosissimo della Roma mi dice di aspettare: «Era qui pochi minuti fa, sarà andato a fare una partitella con i bambini». Il tempo di bere un caffè e vedo la sagoma inconfondibile del centravanti argentino. La prima cosa che mi è venuta in mente è il ricordo di Francesco Campanella, già vicedirettore del Romanista, che in ogni discussione sulla Roma, dal calciomercato al gioco di Capello, finiva immancabilmente per parlarne. Per lui era più di un mito, Manfredini era uno stato d’animo, un modo di declinare la sua passione di romanista, i suoi ricordi più belli. Non ho fissato nessuna intervista, conto in maniera spudorata sulla gentilezza infinita di questo grande campione, perché ho imparato che i personaggi più importanti che ho conosciuto sono stati immancabilmente i più generosi. Il calcolo si rivela ancora esatto e inizia così un bell’incontro con Pedro.

Sentito del nuovo allenatore?

E certo che ho sentito. Sono sincero, non lo conosco, ma dicono che sia bravo e quindi da romanista, faccio il tifo per lui.

Pedro raccontami come hai iniziato a giocare al calcio.

A Mendoza, per strada, ma in tutta Maipù funzionava così. Sono nato da subito come attaccante, perché quel tipo di predisposizione, di caratteristica, ce l’hai nel sangue. Nelle minori del Maipù, sino alla quarta divisione, avrò fatto 320 gol. Poi, tutte le estati si facevano le tournee del minifootball, in notturna. Partite di ragazzini, ma venivano tutti a vederci, anche perché non c’era altro svago allora. Famiglie di sessanta persone che si presentavano al completo, era uno spettacolo.

La Roma non è stata la prima società italiana a cercarti vero?

Tre anni prima, mentre facevo il militare sono venuti quelli del Torino. Ma è stato l’anno in cui è andato via Peron e allora… Avrei potuto essere congedato, invece c’era burrasca e non se ne fece nulla. Comunque non ebbi la sensazione dell’occasione persa. Lasciare la famiglia in quel periodo era quasi inconcepibile. Bisognava vedere se il padre ti dava il permesso e poi chiedere al nonno. Poi Mendoza era una à molto ricca. Sono tutti vigneti, mio padre lavorava nella “Botega” del Vino, stavamo bene. Aggiungi che non avevo procuratore, non avevo nulla e dico la verità ero anche un po’ intimorito. Alla fine si fece sotto Cesarini, allenatore del River, che venne a parlami. Ma a curare il tutto fu Mumo Orsi, l’ex stella della
degli anni ’30. Un grande amico per me, puoi scrivere che è lui che mi ha portato a Buenos Aires, che ha fatto le trattative con il Racing.




Da lì a poco sono arrivati anche dei problemi legati agli infortuni, vero?


Nel 1958 un difensore del Newell’s Old Boys, Jorge Griffa, mi è franato sulla gamba d’appoggio. Uscii in barella, una cosa brutta, assai inconsueta per quel periodo. Fu un intervento cattivo, inspiegabile. Quando il Newell’s è tornato a giocare contro il Racing lui non è venuto perché i tifosi volevano fargliela pagare. In seguito ci si mise anche Benitez che mi ha fratturato il perone, durante Argentina – Perù. Comunque riuscii a rimettermi in sesto anche se il primo infortunio mi costò la convocazione per i mondiali del 1958.

Come sei arrivato alla Roma?

C
’era un ingegnere molto amico di Augusto D’Arcangeli, era tifoso del Racing, disse al presidente più o meno: «Qui c’è un ragazzo bravo, sbrigati perché in molti si stanno interessando a lui». Le cose si misero a girare ad una velocità pazzesca. Avevo rimandato il matrimonio perché ero stato convocato in nazionale, fatta la luna di miele in Uruguay, torno e prendo i giornali, El grafico e tutte le altre testate più importanti mostravano la mia foto in copertina: “Manfredini si è sposato” ecc ecc. Arrivo a casa, tutto contento e iniziamo a sistemare i mobili quando verso le sei del pomeriggio arriva la telefonata: «Ti prende la Roma». Rimasi di stucco, gli dissi che dovevo parlarne con mia moglie. Fu un dramma, perché significava lasciare la famiglia. Non sapevo come fare, anche per mia moglie, sarebbe dovuta venire da sola in un paese straniero, per accompagnarmi. Alla fine ho portato mia sorella che aveva 14 anni e ho lasciato tutti gli amici … è stato difficile.

Prendiamo una pausa … Quando sei arrivato a Roma avevi 24 anni, Lamela, argentino come te era ancora più giovane. Cosa pensi di lui?

Forse a volte eccede nei dribbling, ma è bravo, come no e poi è giovanissimo.

Arrivato a Roma dove ti sei stabilito?

La Società mi fece affittare un appartamento vicino a Piazza Euclide, in Via Francesco Denza. Abitavano lì Claudio Villa, Rossano Brazzi, Mario Riva, la zona era splendida, m’innamorai subito della à.