I pappagalli

16/08/2013 12:16

Il luogo comune ripetuto in punta di becco, che nel volgere di pochi anni ha fatto prima ripetere in loop al pappagallo della famiglia degli smemorati " che rinnova a 5 milioni l'anno se dovrebbe da vergogna'", poi (d'altronde è smemorato) "il vero obiettivo degli americani-laziali che stanno a Trigoria è fare fuori il ". C'è poi il pappagallo calunniatore (più sguaiato del pennuto antenato che si limitava a urlare, scusate la ripetizione, "a stronzo!"), che ama svolazzare in contesti prettamente parasportivi, riempendosi il becco di falsità mandate a memoria dopo averle sentite per mesi e mesi (come un tempo accadeva con le cassette da walkman "English for you"), tipo " so' tre anni che non gioca, e non fa vita da atleta" (non entriamo nello specifico per evitare di riportare calunnie ben più gravi e vergognose).

L'habitat è una Roma à non più divisa in rioni, quartieri, e borgate ma in contrade, che si sfidano al palio non dell'Assunta ma dell'Assurdo, andando spesso oltre la realtà, nella migliore delle ipotesi atrofizzata perché l'analisi sfocia sempre e comunque nel luogo comune, che diventa tormentone più fastidioso di Assereje o del Pulcino Pio (a proposito di uccelli). Il pappagallo romano raramente contribuisce alla discussione con argomenti nuovi. Perde la Roma? "È corpa de Zeman" o "dei miliardari viziati che boicottano il Maestro". La Roma in due anni non è andata oltre il sesto posto, perdendo anche un derby-finale di Coppa Italia? " è della Lazio quindi fa il mercato per farci perdere" oppure " non ha colpe, servono tre-quattro-cinque-forsesei anni per vedere i frutti, e poi ricordatevi che coi Sensi fallivamo".

C'è il pappagallo che griderebbe "Osvaldo pezzo di merda" anche se realmente segnasse duecento gol in una stagione, e quello che "quest'anno arriviamo ottavi perché venderanno , Lamela, Osvaldo, e Borriello", lo stesso che, alla stregua del pappagallo integralista, fino alla settimana prima non voleva sentire ragione, la Roma doveva vendere , Lamela, Osvaldo, e Borriello, perché "tifiamo solo la maglia". Un circolo vizioso, innescato e causato da una Roma che voleva dare un taglio alle divisioni del passato, sbagliando tutto ciò che poteva essere sbagliato e anche oltre. Pure sotto il profilo dialettico, al punto che gli esperti hanno da almeno un anno certificato l'esistenza del pappagallo americano, che vada come vada ripete in continuazione, fino a irritare e poi sfinire chi lo ascolta, "saremo il club più importante al mondo, vinceremo tutto, la Roma sarà regina" (sì, con una sola G).

A Roma ormai ci si ripete, chiunque è pappagallo, presidenti, dirigenti, calciatori, comunicatori, giornalisti, opinionisti, tifosi, allenatori (notate apparizioni fugaci del pappagallo asturiano, che si muoveva in stormo al grido di "trabajo y sudor" e il ritorno del mitologico pappagallo di Boemia, le cui ripetizioni, e ripetute, sono note in ogni angolo del Paese). A Roma a causa della Roma ci si divide partendo da presupposti più o meno convinti. Il pro a prescindere, fedele nel tempo al consorzio americana più di quanto lo sia carabiniere all'Arma, l'anti a prescindere, quello che rinfaccerebbe la presunta lazialità ai dirigenti anche se la Roma vincesse lo scudetto. È calcio, per carità, c'è di peggio, e di più serio.

I pappagalli sono pure quelli che parlando di politica nel terzo millennio ripetono ancora slogan del Ventennio o da Festa dell'Unità. Normale che ci si divida, ma il vero enorme rischio è l'assuefazione mista a noia, che l'evento sportivo, o la classifica finale, diventino un mero pretesto per permettere ai pappagalli di proporre gli insopportabili motivetti. Occorre che la Roma faccia parlare il campo, dopo due anni di flop totale è necessario. Occorre che chiunque parli di Roma, da chi ne fa parte a chi lo fa per lavoro fino ai tifosi, sposti la discussione su tavoli più stimolanti. Gli slogan vanno bene in pubblicità, i tormentoni al massimo vendono per un'estate, poi diventano detestabili. I pappagalli corrono il rischio di essere più démodé di quelli che negli anni ottanta ti gridavano "a stronzo!" soltanto perché ti azzardavi a varcare la porta di un bar di paese.

 
Augusto Ciardi