Quel bambino prodigio diventato icona della Capitale

21/09/2013 11:05

A quei tempi, Roma aveva già incoronato il suo ottavo Re, quando il successore era ancora nella mente degli Dei, nel lontano Brasile, ma Paulo Roberto Falcao non avrebbe mai toccato i vertici di adorazione che la à aveva dedicato al Fornaretto di Frascati, Amedeo Amadei, l'autentico inventore della «foglia morta» che qualche cronista distratto avrebbe molto più tardi attribuito a Mariolino Corso. Ma qui forse finisce una parte della storia romanista. Poi, come dicevano i rievocatori dei miti «venne un uomo». E così cominciò la leggenda. Fin troppe volte sono state ripercorse le tappe di una carriera che forse mai conoscerà uguali, perché tutta dedicata a un'unica naglia, un connotato che non appartiene neanche ai monumenti del calcio mondiale. Fenomeno ulteriormente accentuato da quando sul mercato del calcio hanno fatto irruzione il petrolio e il gas, carovane di cammelli alla conquista dell'Europa, che forse più ancora dell'America Latina era in grado di esprimere talenti, senza avere i mezzi per tenerseli stretti. Non aveva ancora festeggiato i diciassette anni, Francesco, quando mise insieme i suoi primi due gettoni in Serie A, adesso sono indispensabili gli almanacchi, o più praticamente i dati sulle pagine di Internet, per tenere il conto di una carriera ventennale.



Che si allungherà, perché James Pallotta ha tenuto fede alle promesse, garantendo al capitano altre due stagioni di contratto. Poi si vedrà, ma un futuro da dirigente sembra garantito, anche se susciterà qualche sentimento contrastante vedere seduto dietro una scrivania. Lui che non si è mai fermato, nenche quando qualche intervento assassino lo ha costretto a soste prolungate e a recuperi sofferti. Aveva lasciato da poco le stampelle, quando Marcello Lippi gli chiese se fosse disposto ad affrontare l'avventura del campionato del mondo in Germania. Francesco non avrebbe potuto dare risposta più preziosa, basterebbe il rigore contro l'Australia, che aveva richiesto un bel fegato, ma anche le giocate eleganti nella semifinale con i tedeschi, prima del trionfo a Berlino.

Nella sua personale bacheca figurano una Coppa del Mondo e uno scudetto, manca quel Pallone d'Oro che soltanto il suo amore a prova di bomba per i colori romanisti gli ha pervicacemente negato. Vengono alla mente, parlando di questo inimitabile campione, la perole che Lorca aveva dedicato a Ignacio Sanchez Mejas:
«Quando nascerà, se nasce?». Era un andaluso, quel giovane toreador colpito a morte nell'Arena, Francesco è Roma: la sua anima, la sua essenza.



Che non si esprime soltanto nel talento calcistico, ma interpreta il cuore del capitolino vero. Magari strafottente, magari a volte indisponente, ma con un cuore grande, capace di mettere i sentimenti al disopra di ogni interesse. Se non avesse seguito questo senso della vita, avrebbe raccolto trionfi irraggiungibili, con la maglie del Real o del , dell'United o del Bayern, ma
il suo personale Pallone d'Oro resta la fedeltà a una maglia che mai avrebbe tradito, a dispetto di ogni tentazione. Anche in Italia avrebbe potuto coltivare ambizioni più elevate, ma a , Milan, Inter, rivali sempre ma nemici mai, come vuole lo sport, mai è stato tentato di dire sì. Il suo matrimonio con la Roma è, rarità di questi yempi, realmente indissolubile.