Garcia vs Benitez. Quando l’allievo ruba i trucchi al maestro...

09/10/2013 09:41

Padre Partita anonima, nel grigio autunno del 2008, a Grenoble. Una delle prime tappe dell’ascesa del Lilla, da poco nelle mani di che in quella stagione sarebbe approdato al quinto posto, entrando in Europa League. Anche quella sera si aspettava la chiamata di papà José, detto Poyo, ex calciatore di Sedan e Dunkerque, che al figlio aveva trasmesso l’amore per il calcio, allenandolo fin da ragazzo a Corbeil, club a una quarantina di chilometri a sud di Parigi. Invece, il papà di Rudi quel giorno di fine ottobre fu colto da un infarto, guardando la partita finita 0-0: «Eravamo molto uniti – spiegherà poi Rudi mi chiamava sempre per parlare dell’incontro. Quella sera è suonato come sempre il cellulare, ma era il compagno di mia sorella Sandrine che mi comunicò la terribile notizia. Avrei voluto vivesse più a lungo, ma sono certo che continua a seguire le mie partite e a proteggermi da lassù».

Maestro Da papà José, Rudi ha ereditato non solo il secondo nome, ma anche carattere e dedizione: «Mi bastava osservarlo, lavorava tutto il giorno e alla sera correva ad allenare. Sacrificava i fine settimana per la squadra. Mi dicevo che fosse un mestiere ingrato quello dell’allenatore, ma alla fine mi ha trasmesso il virus». Tramutatosi in professione, già a 30 anni, nonostante il debole per il giornalismo, «un mestiere magnifico », che lo spinge ancora oggi a leggere con attenzione le interviste dei grandi tecnici, a cominciare dagli italiani, magari da far leggere ai suoi giocatori. Ma il ginocchio malconcio che lo obbligò a rinunciare alla modesta carriera di giocatore, è l’occasione per mettersi a studiare da allenatore, con il diploma scientifico già in tasca, per poi debuttare sulla panchina che era stata del babbo, a Corbeil. Consumata l’esperienza a St Etienne, sotto l’ala di Robert Nouzaret, nel 2001 completa la formazione con uno stage a Valencia. Un ritorno alle origini per il nipote di antifranchisti, andalusi, fuggiti dalla dittatura spagnola. E l’inizio dell’amicizia con Benitez, il secondo tutore: «Gli devo molto perché mi spalancò le porte di un grande club quando non ero nessuno, dedicandomi molto tempo. Si è subito instaurato un bel dialogo. Da lui ho imparato l’approccio tattico. Più i giocatori sanno come e dove muoversi, più sono performanti. Ma di Benitez apprezzo anche l’attenzione per i calci piazzati, sia in fase offensiva che difensiva. E ne condivido la filosofia di gioco spagnola, l’idea che il giocatore deve dare il massimo per la squadra».

Revival Principi fondamentali del metodo applicato con successo a Roma. Fatali però a Benitez, almeno nel primo rendezvous fissato in campo qualche anno dopo. Undici marzo 2010, ottavi di finale di Europa League. incrocia il maestro e per 90’ lo umilia. Contro ogni pronostico la squadra di anonimi mette al tappeto i Reds con un gol dell’emergente Hazard. Ma Benitez non si scompone e impartisce un aggiornamento all’allievo una settimana dopo, ad Anfield: 30, Gerrard e doppio Torres. Lezione che non interrompe l’amicizia. Anzi, Benitez è tra i primi a felicitarsi con per telefono l’anno dopo, quando il Lilla vince lo scudetto. Senza dimenticare le telefonate dello scorso anno per parlare di come sfruttare al meglio proprio Hazard, passato al Chelsea, affidato temporaneamente allo spagnolo, giusto il tempo per vincere l’Europa League. E adesso, i due amici si ritrovano ancora in campo, da avversari e protagonisti, dominatori stranieri della Serie A.