Amedeo romanista per sempre

25/11/2013 09:06

Sfogliando il calendario, per sdrammatizzare le sue condizioni e non farci preoccupare, osservando una sua immagine in cui appariva imbronciato, prese la palla al balzo e strizzandoci l’occhio disse: «Aho, qui dovevo essere arrabbiato, chissà perché. Si vede che me dovevano dà dei soldi». Fu un momento bello e commovente allo stesso tempo. Soprattutto il commiato. Ci stringemmo la mano e guardandolo negli occhi, lucidi, ebbi, netta, la sensazione che si trattava di un commiato. Di Amadei ne avevo sentito parlare, fin da piccolissimo da mio padre. Era la pietra di paragone su cui misurava qualsiasi attaccante: «Pruzzo – diceva sogghignando – bravo, bravo, ma vuoi metté co Amadei?». Voeller idem … Pelé idem. Amadei era sempre un’altra cosa. Così, quando quasi venti anni fa, il 23 febbraio1994 mi presentai a Frascati per intervistarlo, a casa mia la cosa venne vissuta come un evento. Arrivai con un’oscena scatola di cioccolatini e un libro di Antonio Papa e Guido Panico sulla storia sociale del calcio. Ero un ragazzino impacciato e tanto timido da essere spaventato.

Quando mi vide mi rimproverò: «Ma ti metti a farmi i regali? Ma tu sei giovane devi mettere da parte, perché la vita è difficile». Fui impressionato dal suo atteggiamento paterno e nel corso degli anni, conoscendolo meglio, sempre più mi resi conto dalla grande generosità dimostrata verso il prossimo. Generosità con i giornalisti, generosità con i tifosi (amava moltissimo fare dediche sui libri e faceva piccole domande per personalizzarle), generosità con chiunque lo avvicinasse. Quando nel 2009 realizzai il libro sullo scudetto della Roma del 1942 gli chiese di firmare assieme a Nobile e Krieziu una breve nota autografa da utilizzare come prefazione. Lo fece senza battere ciglio e assieme alla prefazione firmò, una dietro l’altra, 100 cartoline che lo ritraevano con la maglia scudettata, che vennero allegate alle 100 copie del libro. Uno dei nostri incontri più belli si consumò a Testaccio, proprio sul perimetro del campo, sacro ai nostri colori, dove aveva debuttato giovanissimo. Indicandomi l’area dove una volta sorgevano i popolari mi disse: «Da Mattatoio che è proprio qui a due passi, arrivavano i macellai ancora con i sacchi di Juta dietro alle spalle. Con il sangue sui camiciotti, distrutti dalla fatica. Noi sapevamo che per questa gente dovevamo dare tutto, per regalare una gioia … e io ce l’ho messa sempre tutta».

C’era in quelle parole tutta l’etica profonda e l’amore di un campione che ha rappresentato e rappresenterà sempre la Roma. In quel volto spesso sorridente ma sempre concentrato e serioso quando era in campo, c’è quello che di più bello vive nella passione romanista. Continuando in quella passeggiata, arrivati nell’area di rigore mi disse: «Quando ero spalle alla porta, in allenamento, mi piaceva fare le rovesciate. Partivo con la bicicletta e colpivo. Poi, un giorno, Schaffer mi disse: “Ma quando colpisci vedi dove va la palla?” “No” e lui: “E allora che la fai a fare la rovesciata?”. E da allora non le ho fatte più». Preferiva parlare di questo, prendendosi in giro, come tutti i fuoriclasse. Sulla sua velocità (un missile), della sua maestosità tecnica (metteva la palla dove voleva sui calci piazzati), della sua potenza (una fucilata), della sua maestria tecnica (a fine carriera divenne, di fatto, il regista del ) … preferiva glissare. Ricordo infine una volta in cui lo stavo accompagnando al suo forno. All’altezza dell’incrocio tra Via Tuscolana e Via del Mandrione mi parlò di quando, proprio in quel tratto di strada, era sfuggito a un rastrellamento dei nazisti … la voce gli si velò: «Ho visto portare via tanti ragazzi senza poter fare niente, è stato terribile» . Pensai che la sua vita nei dolori e nella gioia, nelle vittorie e nelle sconfitte fosse stata la vita di un uomo profondamente buono. Un fuoriclasse nella vita e sul campo: un uomo che rimarrà per sempre una delle anime immortali della Roma.