25/02/2014 10:43
LA STAMPA (A. BARBERA) - L’ultima volta - e forse l’unica - in cui ha pensato di scommettere sull’Italia risale al 2008, quando la famiglia Sensi decise di rinunciare al controllo della Roma. Nei bar e nei taxi della Capitale non si parlò d’altro per settimane. Capì subito che la mossa avrebbe potuto essere molto popolare, ma al dunque non se ne fece nulla. «Ho avuto molta più pubblicità per questo che per anni di devozione alla causa dei Rom», raccontò. A parte quell’episodio - e uno sporadico investimento in titoli pubblici un paio d’anni fa - George Soros in Italia non ha mai investito uno spillo. Non per una banca, né per un’azienda. Ora però l’aria sembra cambiata.
Qualcuno lo chiamerà subito effetto fiducia o effetto Renzi, il segno che la crisi è davvero alle nostre spalle. La verità, a voler essere prudenti, è che abbiamo raschiato il fondo del barile, e dall’altra parte dell’Atlantico l’euro non è più visto solo come una bomba pronta ad esplodere. Lo dimostrano le notizie rimbalzate la scorsa settimana da Wall Street su un investimento ribassista del Fondo Soros sull’indice Standard and Poor’s. E lo conferma un’intervista del finanziere ungherese allo Spiegel domenica: «Io credo nell’euro», «anche se temo che l’area possa finire in una stagnazione come quella subita per 25 anni dal Giappone ». In ogni caso «il mio team di investimenti sta cercando di trovare il modo di fare un po’ di soldi in Europa, ad esempio investendo nelle banche che hanno rapidamente bisogno di capitale». Fra i Paesi considerati più appetibili c’è proprio l’Italia.
Gli uomini di Soros avevano già incontrato Fabrizio Saccomanni durante la sua visita a New York, lo scorso Natale. La scorsa settimana - secondo quanto risulta da più fonti - il team incaricato degli investimenti nell’Europa del Sud questa volta è volato a Roma per alcuni incontri riservati. L’obiettivo era capire se il nuovo governo di Matteo Renzi sarà in grado di dare la stabilità politica, la precondizione per un investimento almeno a medio termine. Quel che i banchieri americani hanno capito con certezza è che di qui a qualche mese, dopo i nuovi stress test della Banca centrale europea e dell’Autorità europea sulle banche sui requisiti di capitale molti istituti avranno bisogno di fondi. Mps lo dovrà fare per tre miliardi di euro, Carige per 800 milioni, Banco Popolare ha in cantiere un rafforzamento pari ad 1,5 miliardi, Bpm per 500 milioni. Ma pochi giorni fa - era il 3 febbraio - il governatore della Banca d’Italia Visco ha lasciato intendere che la questione potrebbe investire molte più banche, soprattutto dopo aver fatto chiarezza sui cosiddetti «crediti deteriorati» che dovranno emergere dai test. «La profondità della crisi ha avuto ripercussioni sulla qualità dei prestiti, soprattutto quelli alle imprese. Potranno configurarsi in alcuni casi esigenze di ricapitalizzazione ». Basti citare il caso di Intesa Sanpaolo, che nelle stesse ore ha ipotizzato la creazione di una «bad bank» nella quale far confluire 55 miliardi di quelle sofferenze. O il progetto della stessa Intesa che, insieme a Unicredit, potrebbe coinvolgere il fondo di investimento americano Kkr. Insomma, agli attuali valori di Borsa, tuttora deboli, la sensazione restituita al grande capo è che in Italia si possono fare ottimi affari. E che in nome di questo potrebbe essere rivisto il portafoglio degli investimenti in Europa, oggi esposto soprattutto versoPaesi come la Spagna. Sarebbe un’ottima notizia, sempre che nel frattempo la politica non dia nuova linfa ai pregiudizi che i mercati hanno avuto per troppo tempo - e non a torto - nei confronti di un Paese spesso inaffidabile.