30/04/2014 09:39
IL TEMPO (A. AUSTINI) - Simpatico proprio no. A nessuno. Magari per scelta: «Non sono amico dei calciatori», ci tiene a precisare.
Antonio Conte non può girare tranquillo neppure dalle parti di casa: nella «sua» Lecce una sera d’agosto del 2008, dopo una vittoria in un torneo di calcetto, tre balordi lo hanno inseguito fin sotto casa con delle mazze di legno. In Salento, la terra natale, non gli perdonano di aver esultato per un gol segnato con la maglia della Juve contro il Lecce. Poi per aver allenato il Bari. Nel resto d’Italia, juventini a parte, lo sopportano a fatica.
A Roma, di questi tempi, figuriamoci. Se prima era visto come uno dei simboli della Juve di Moggi, della squadra lippiana processata da Guariniello per doping (fu tra quelli chiamati a deporre), adesso è l’allenatore che risponde con sdegno alle accuse del «signor Garcia». Di Totti. Della Roma. «Così parlando, alimentano la cultura del sospetto. Devono stare attenti» ha tuonato Antonio dopo aver messo le mani sul terzo scudetto di fila.
Ha avuto sul serio paura di perderlo. A inizio campionato una squadra non «calcolata» tra le possibili avversari vinceva sempre. La sua Juve quasi sempre, anche grazie a qualche errore arbitrale. «La critica ci prova a destabilizzare - accusava Conte a ottobre dopo il ko di Firenze -qualcuno prova a sfasciare tutto. Non si vuole che la Juve vinca ancora». A proposito di cultura del sospetto.
La Roma dove hanno preferito giocare Destro e Nainggolan, entrambi cercati dalla Juve, ultimamente si era avvicinata troppo in classifica. Meglio tornare in sala stampa, allora, dopo averla disertata per mesi perché lui certe domande non le sopporta.
Neppure adesso, con il terzo titolo tasca, riesce a rilassarsi. A fare il simpatico. «Sento parlare di una Roma stratosferica, allora noi cosa siamo?». Una sorta di complesso: non gli vanno giù gli elogi ai giallorossi e soprattutto al «signor Garcia», battuto «da un bravo allenatore italiano» nello scontro diretto del 5 gennaio allo Stadium. Un francese che, sempre secondo Conte, non può permettersi di piombare in Italia e dire certe cose. Ricorda tanto Lippi, quando ammoniva Zeman: «Non è giusto criticare un sistema e continuare a farne parte».
Antonio non è e non sarà mai soddisfatto. Ora vuole vincere l’Europa League, «e se ci riusciremo diranno che è una coppetta». Il fallimento in Champions è un peso insopportabile. Ma sa quanto sarà complicato prendersi la rivincita con la Juve: la probabile cessione di Pogba servirà più a sistemare il bilancio che a investire sul mercato. Ecco perché Conte è sempre sul piede di partenza. Ha rifiutato il Monaco, aspetta un club più solido. Tipo il Psg.
D’altronde non si è mai fatto problemi a cambiare panchina. A Bari ha rescisso un contratto firmato appena tre settimane prima, lo aspettava l’Atalanta in serie A ma dopo neppure tre mesi si è dimesso. Pare che i giocatori, Doni in primis, non lo vedessero di buon’occhio. Atalanta, Doni, calcioscommesse. Un filone che arriva fino a Bari e a Siena, dove nel frattempo Conte è andato ad allenare. I giocatori si vendono le partite e lui, dopo il rifiuto del patteggiamento, paga con una squalifica di 10 mesi, poi ridotti a 4, per l’omessa denuncia di una combine.
La procura di Bari lo ha ascoltato come persona informata dei fatti e lui si è dato del «coglione» visto che non si era accorto delle partite «acchittate» nello spogliatoio. A Cremona è stato iscritto nel registro degli indagati, con tanto di perquisizione a casa nell’ambito dell’ultima inchiesta tuttora in corso sulle scommesse.
«Agghiacciante» urla Antonio e diventa improvvisamente simpatico. Ma è un’imitazione di Crozza.