01/04/2014 13:44
IL FATTO QUOTIDIANO (M. PAGANI) - In un clima biblico, con forza inversamente proporzionale alla mitologia, alle evocazioni e alla scena del delitto, Gianluca Sansone ha deciso di morire in un pomeriggio emiliano. C’è un flebile contatto in area romanista con il centrale Benatia. Il giudice di porta, l’arbitro Peruzzo, ha un soprassalto d’ego e legge nel colpo d’anca a pochi passi da Morgan De Sanctis, ciò che l’arbitro deputato a decidere, l’internazionale Nicola Rizzoli, proprio non vede. Sansone cade, si rialza, passa più di duecentocinquanta secondi, un’eternità, nel dubbio filosofico tra il prendo e porto a casa e l’ammissione di un regalo immeritato. Poi cede. Confessa. Scagiona l’avversario. Trasforma in cenere l’ultima possibilità di salvezza del piccolo Sassuolo. Rifiuta il dono. Così il calcio di rigore che avrebbe potuto mutare il destino della sconfitta in orizzonte differente, sparisce all’improvviso. E lascia Sansone solo. Nudo. Smarrito in una responsabilità troppo grande. Nella fredda terra di mezzo in cui il fair play non vale neanche uno straccio di coperta e il sogno di mezza estate tramonta al passo rapido delle occasioni mancate. Che pensieri gli abbiano riservato tifosi, compagni di squadra e vertici di Confindustria alle prese con il loro Borgorosso Football Club a fine gara è intuibile.