Ago, vent’anni di solitudine

30/05/2014 10:51

IL FATTO QUOTIDIANO (M. PAGANI) - Se Agostino e suo figlio Luca, vent’anni dopo, potessero ancora passare interi pomeriggi a parlarsi senza mai aprir bocca. Se solo quel verbale dei Carabinieri non fosse stato mai scritto: “Il Di Bartolomei indossava un paio di pantaloni ginnici, jeansati, di colore celeste e una maglietta di pigiama di colore beige”. Se di rosso fosse rimasta solo la terra del campo di Tor Marancia e di nero, la spiaggia di Lavinio da arare sotto lo sguardo attento del padre Franco, questa storia non parlerebbe ancora i colori del rimpianto. L’uomo in più, piegato dall’indifferenza, si sostituì da solo a 39 anni. Sottraendosi francescanamente a un universo abituato a rispondere: “Vedremo”.

AI PIEDI, come in certi spogliatoi dell’infanzia, Ago “non portava né scarpe né calze”. L’Ansa aveva dato la notizia con due ore di ritardo: “Ago - stino Di Bartolomei, ex calciatore della Roma, si è ucciso stamattina sparandosi un colpo in testa sul terrazzo della sua villa di San Marco di Castellabate” e in un attimo ogni cosa era tornata al silenzio – la dimensione favorita del Diba o come lo chiamavano gli indigeni “Dibba” – portandosi via scudetti e delusioni, ragioni, torti e fotogrammi definitivi. Istantanee da rivedere con la domanda di sempre alle spalle: “Per - ché?” e i pezzi di carta strappati, ritrovati in un pantalone da Marisa, la moglie, a scorrere davanti agli occhi nel vano tentativo di cercare i nessi, intuire un’anatomia sentimentale, disperarsi una volta di più. Nelle ultime parole scritte dall’ex capitano della Roma si parlava di banche che ostacolano i sogni, di mutui rifiutati, di fondi regionali immobili, di burocrazia. Di libertà: “Il mio grande errore è stato cercare di essere indipendente da tutto”. Di amore: “Ti adoro e adoro i nostri splendidi ragazzi, ma non vedo l’uscita dal tunnel”. Di aspirazioni tradite, promesse non mantenute, di fama rapita che per dirla con Eduardo Galeano non gli aveva lasciato “neppure una letterina di consolazione”. Anche Agostino, il campione riflessivo, quello che con gli arbitri discuteva con le mani dietro la schiena, lo stesso che amava l’arte e la lettura, metteva il cuore dentro alle scarpe e se non correva più veloce del vento era solo per mettere la palla al posto giusto, si era trovato solo. Come i calciatori tristi delle canzoni di De Gregori, gli Antonio Pisapia di Paolo Sorrentino, le persone troppo serie che alla saggezza popolare dei vecchi, fino a quando l’età non divora le illusioni, non vogliono credere. Papà Franco lo aveva avvertito: “Quando si smette, si smette. Adesso sei Ago, Diba di qua, Diba di là, ma poi di te non fregherà niente a nessuno”. Era accaduto, ma nella marginalità del Cilento, nel doppio passo che lo aveva scaraventato per passione nelle retrovie, con la maglia della Salernitana riportata in Serie B dopo l’esperienza con il Milan e la parentesi di Cesena, Agostino era voluto approdare immaginando un nuovo inizio. Aveva una barca, la “Leucosia” con cui salpare per Punta Licosa a pescare murene e si sentiva di poter nuotare in autonomia. Allenatore, osservatore, insegnante di calcio per bambini anche in tv, a Te - lecolore , perché l’impero era lontano e bambino era stato anche lui.

QUANDO QUALCHE adulto, qualche compagno si smarriva nelle tentazioni, toccava ad Ago fare gruppo, aprire il frigo, rafforzare la comunità con un abbraccio. Poi fu Di Bartolomei ad avere bisogno. E all’orizzonte, con grettezza di cui è difficile stupirsi, sparirono un po’ tutti. Agostino prese carta e penna. Scrisse alle società, ai politici, agli amministratori. Andò in trasferta al Palafiera, a Roma, nel febbraio del ’94 per la prima convention della Forza Italia del suo ex presidente Berlusconi. Prima di arrendersi a una debolezza, con onesta dignità, cercò sulla mappa scie e costellazioni per vedere un altro cielo da vicino. Da giovane stella osannata, rifiutava autografi argomentando la ritrosia agli amici increduli: “Non è che non voglio farli, è che mi chiedo perché li vogliono”. Da meteora in caduta libera, firmò a modo suo l’addio più doloroso. Dieci anni prima, la Roma aveva perso in una maledetta notte casalinga la Coppa dei Campioni contro il Liverpool. Dieci anni dopo, perdendo se stesso, Agostino aveva gridato come il personaggio di Moravia. Uno che voleva essere trattato da uomo in un mondo di bestie.