Oltraggio non scaccia oltraggio

07/05/2014 09:51

CORSERA (L. BOLDRINI) - Caro direttore, non mi piace, e soprattutto non credo sia utile al Paese, un dibattito pubblico che proceda a colpi di ondate emotive contrapposte, in cui l’indignazione più recente ci fa dimenticare quella che avevamo vissuto appena pochi giorni prima.

Ho provato anche io grande rabbia e amarezza — seguendo da casa in tv sabato sera la drammatica finale di Coppa Italia — nel vedere quell’ignobile maglietta indosso ad un individuo inspiegabilmente libero di dettar legge. Ma non vedo ragione perché l’oltraggio alla memoria di Filippo Raciti debba valere come colpo di spugna su un diverso oltraggio, quello in forma di applausi che la settimana scorsa è toccato alla madre di Federico Aldrovandi.

Due comportamenti sbagliati, di segno opposto, non si elidono a vicenda. E uno Stato di diritto deve essere due volte dalla parte giusta, non può piegarsi ad un incomprensibile «pari e patta». Per questo ritengo che non ci sia da parte mia né «populismo istituzionale», né «demagogia» — come mi imputa Marco Demarco nell’editoriale di ieri — nel sostegno dato alle richieste di Patrizia Moretti. «Degradare gli irresponsabili o allontanarli dal servizio pubblico è il minimo che si debba fare», riconosce lo stesso Demarco riferendosi ai fatti di Ferrara. Ma quel «minimo» non è accaduto, e di questo mi è venuta a parlare la madre di Federico insieme al senatore Manconi. Dopo che gli agenti condannati in tribunale per la morte di suo figlio hanno avuto solo sei mesi di sospensione dalla commissione disciplinare interna, mi ha chiesto di aiutarla ad avere una risposta dal capo della Polizia. Una risposta che l’aiuterebbe a capire, potendo avere l’accesso fin qui negatole agli atti del procedimento, come si sia giunti a una sanzione tanto lieve. Non perché quella decisione sia modificabile: l’iter disciplinare è irreversibilmente concluso. Ma perché «non accada più ad altri ragazzi», come ha detto Patrizia con una fiducia nelle istituzioni e una generosità che trovo straordinarie. Allo stesso senso del diritto si ispira la decisione della Commissione Giustizia di mettere in calendario per questa settimana alla Camera il disegno di legge sul reato di tortura, che l’Onu chiede da 25 anni all’Italia di introdurre nel codice penale. Chi presenta questo testo come tassello di «un’opera di delegittimazione dei corpi di polizia » è evidentemente poco informato. Basterebbe prendere atto del voto unanime con il quale il Senato lo ha approvato due mesi fa per non vedere nel provvedimento una ritorsione contro le divise. Nel testo la tortura è qualificata come reato imputabile a qualsiasi cittadino e non soltanto alle forze dell’ordine, come invece avviene in molti altri Paesi europei e come pure chiedevano alcune forze politiche a Palazzo Madama.

Nel promuovere queste azioni non mi sento affatto di agire «come se il nemico numero uno fosse il poliziotto». È esattamente il contrario: proprio perché ho grande considerazione della fondamentale funzione che la stragrande maggioranza degli agenti svolge nel rispetto delle regole, non voglio che la loro credibilità presso i cittadini possa essere guastata dai comportamenti di pochi. Soprattutto gli uomini che hanno onorato la Polizia, come l’ispettore-capo Raciti, meritano di non essere accomunati a chi la divisa l’ha sporcata. E al tempo stesso mi auguro che lo Stato sappia far valere tutta la sua forza contro i delinquenti che infestano gli stadi e che troppo spesso mettono a rischio la vita degli agenti, dei tifosi e di famiglie che cercano novanta minuti di svago.