09/07/2014 09:56
GASPORT (A. MONTI) - La morale della favola disegna perfettamente il paradosso del calcio italiano: in un mondo di lupi e di volpi tocca a un Agnelli fare la voce grossa. Che la dea Eupalla gliene renda merito! Meno di una settimana fa, di fronte al disastro brasiliano e alla prospettiva che a raddrizzare la baracca fosse il premiato trio Tavecchio- Macalli-Lotito, la Gazzetta ha lanciato un appello: se c’è qualcuno nell’empireo della pedata che voglia spendersi per un reale rinnovamento delle istituzioni e dei costumi, batta un colpo. E in fretta. Perché a metà agosto, complice uno statuto scellerato, i giochi in Figc saranno fatti secondo le consuete liturgie. Bene, ieri il colpo è arrivato col fragore di una cannonata. Senza mezze parole, in un’aula del Parlamento, il presidente della Juventus ha detto che Abete ha disertato nell’ora del bisogno. Che Tavecchio, proprio nel giorno in cui ha formalizzato la sua discesa in campo, è «inadeguato». E che non servono pontieri ma riforme subito. Non pago, ha aggiunto che il candidato ideale potrebbe essere un ex calciatore di vaglia supportato da un’adeguata squadra manageriale.
Insomma, Agnelli il rottamatore... Il parallelo con Renzi potrebbe starci: in fondo sono nati nello stesso anno, il 1975. E proprio nel 2010, mentre il primo assumeva la guida della squadra più popolare d’Italia rinnovandola nel profondo, il secondo riuniva per la prima volta il suo manipolo di innovatori alla Leopolda. Vite e risultati paralleli: l’uno vince tre scudetti ma prende batoste in Europa, l’altro conquista Palazzo Chigi ma deve guardarsi quotidianamente dalle tarellate dei tedeschi. Ce la faranno? Come sempre, lo scopriremo solo vivendo ma certo la dottrina Agnelli come quella di Renzi un pregio, anzi un fascino, ce l’ha. Traccia una strada alternativa e chiara. Propone riforme non solo condivisibili ma inderogabili. E soprattutto, parla alla nuora – la Figc – perché la sua grande e rissosa famiglia intenda: la rivoluzione che propone non può che partire dai presidenti della serie A, dalla Lega che li rappresenta, da una governance moderna per un’azienda di cui, alla fine, siamo azionisti noi tutti. Si dice che Agnelli sia intervenuto avendo in testa un nome e un cognome: quello di Demetrio Albertini, candidato di indubbio prestigio e di ottima presenza.
Il suo discorso, per la verità, si allarga a una generazione che comprende una squadra intera di campioni assai rappresentativi da Vialli a Maldini fino a Cannavaro (il riferimento al ruolo di Platini in Uefa e di Rummenigge in Eca è stato esplicito). Per quanto riguarda Albertini una cosa è certa: non pare disposto a ingaggiare una battaglia all’ultimo voto che dividerebbe le componenti della Federazione e, semmai fosse vinta, lo condannerebbe a una presidenza senza investitura forte e quindi priva di reali poteri riformatori. In realtà, la domanda del giorno è quella che Stalin fece a proposito del Papa: di quante divisioni dispone il presidente della Juve? Sulla carta, poche.
Carlo Tavecchio ha in mano i dilettanti, una parte consistente della Lega Pro e, allo stato, la maggioranza relativa dei presidenti di A riuniti per amore o convenienza attorno alla strana coppia Galliani-Lotito. Lady Barbara parla a titolo personale. E Abodi, presidente della Lega di B, è sotto schiaffo: dalla sorella maggiore prende 55 milioni all’anno in cambio di una sostanziale coerenza politica. L’unica speranza è che nei prossimi giorni altri si facciano avanti e parlino apertamente come ha fatto Agnelli. Escluso il presidente del Coni che ha le mani legate e che potrebbe intervenire solo nel caso di paralisi assembleare, occorrono voci autorevoli e un movimento d’opinione capace di indurre il cambiamento. O, alla peggio, di convincere il settantunenne Tavecchio (che dal punto di vista personale e dei risultati, vogliamo ripeterlo, non è il diavolo) se non a desistere, almeno a circondarsi di manager all’altezza. Coraggio, siamo ai rigori e la vittoria è tutt’altro che garantita. Se qualcuno se la sente, metta la palla sul dischetto e tiri.