13/08/2014 10:04
CORSERA (L. VALDISERRI) - Da 48 ore, cioè da quando James Pallotta ha pagato 33 milioni di euro per diventare ancora più padrone della As Roma, Paolo Fiorentino non è più «er Murena» ma è ritornato il vicedirettore generale di Uni- Credit, responsabile della Strategic Business Area.
«Non so perché mi avessero messo quel soprannome. Me lo ha detto un tassista di Roma. Forse non tutti i tifosi avevano preso bene il ruolo di UniCredit dentro il club, però, a distanza di 4 anni, possiamo dire di aver lasciato la Roma in buone mani. Missione compiuta ».
Occuparsi anche di calcio è stato più un divertimento o una fatica?
«Un percorso sofferto, a ostacoli. Un’esperienza che, in un’ipotetica seconda vita, mi risparmierei. Ci sono state molte discussioni, anche dentro UniCredit, ma abbiamo sentito una responsabilità, quasi una “corporate citizenship”, verso un bene importante per la città. Però è stata un’avventura fuori dai canoni bancari. Il calcio è troppo irrazionale».
Cosa lascia UniCredit al calcio italiano e cosa ha portato la Roma di James Pallotta?
«È stato il segnale della fine del mecenatismo, finanziariamente insostenibile. Vedo che altre società italiane hanno seguito questa strada che definirei, per semplificare, manageriale».
All’inizio l’uomo forte sembrava Tom DiBenedetto, che poi è sparito...
«È stato il primo ad avvicinarci. Fin dall’inizio era evidente che non potesse fare tutto da solo, ma abbiamo dato fiducia a chi c’era dietro di lui. Cioè Pallotta».
E i cinesi di Chen Feng?
«Importante e interessante, ma con tempi biblici. E, probabilmente, avrebbe voluto quel controllo diretto sul club che Pallotta vuole mantenere, aprendo anche ad altri investitori, come Starwood».
Pallotta vuol dire stadio. Da manager abituato a trattare con la nostra burocrazia è ottimista?
«Sono ottimista sul fatto che si farà, ma non mi chieda i tempi. In Italia ci sono sempre troppi attori. UniCredit, in occasione degli Europei 2012, ha finanziato gli stadi di Stettino e Varsavia, uno privato e uno pubblico, fatti in tempi ragionevoli ».
Cosa pensa del fair play finanziario dove i grandi club continuano a spendere a rotta di collo?
«Me lo aspettavo diverso. Alcune modalità tecniche, come i finanziamenti travestiti da sponsorizzazioni e le multe pagate senza rimpianti, hanno dato ancora più forza a un fenomeno irreversibile che ha tolto al calcio la sorpresa. Vince chi spende di più e chi vince si autofinanzia ».
È contento di essere uscito dal calcio italiano degli Optì Pobà?
«Non conosco il neo presidente Tavecchio e non giudico. Di sicuro è stata una scivolata terribile. In generale, in Italia, nel fare certe scelte si parte dalla persona e non dal profilo che serve all’impresa. E così si perdono occasioni».
La Roma in cui, in tempi diversi, hanno convissuto la famiglia Sensi, UniCredit e Pallotta, ha dato segnali positivi di cambiamento?
«Rosella Sensi è una donna straordinaria, animata da una grande passione, che si è trovata in una situazione finanziaria complessa. L’ingresso degli americani ha imposto un modello aziendale che, in alcuni casi, può anche non piacere ai tifosi, ma che è una risposta ai problemi che gestioni patriarcali non riuscivano più a risolvere. Poi, naturalmente, il calcio non può fare a meno di personaggi. Da Zeman a Garcia mi pare che gli esempi della Roma, sotto il profilo morale e dello spettacolo calcistico, siano stati buoni».
Da tifoso del Napoli avrebbe timore di andare allo stadio per la partita contro la Roma?
«Problema tristissimo e complicato. Sportivamente è una sfida straordinaria, che non va lasciata in mano a chi usa il calcio per pura criminalità. Mi piacerebbe un gemellaggio tra i più giovani, magari anticipare la gara con una partita di bambini».
Parla da futuro presidente della Federcalcio. Nostalgia del pallone?
«La ringrazio, ma ho già dato»