01/09/2014 10:49
LA REPUBBLICA (M. CROSETTI) - Stavolta sarà più emozionante che agghiacciante. «La prima da ct della nazionale è come sentirsi un ministro della Repubblica», ricorda Azeglio Vicini che restò al governo azzurro fino all’ultima delle notti magiche, pare ieri, è già quasi un quarto di secolo. In fondo alla catena di uomini tumultuosi e condottieri c’è adesso Antonio Conte, che giovedì a Bari contro l’Olanda vivrà qualcosa di unico e irripetibile, lui forse lo immagina ma ancora non lo sa. Essere l’allenatore di tutti e in fondo di nessuno, oltre il campanile ma non fuori dalla campana di vetro dei risultati: un problema per chi ha sempre diviso, ma anche una sfida per chi sa giocare con lacrime, sangue e passione.
«Ti senti un ministro perché sei lì in nome del popolo italiano », dice Azeglio, uomo di una volta. «A me andò bene, al debutto vincemmo 2-0 in amichevole contro la Grecia, addirittura doppietta di Bergomi. Un privilegio, un grande onore. Ai miei tempi il ct era un uomo di federazione, conosceva l’ambiente benissimo, aveva fatto carriera interna. Quando suonano l’inno e ti metti sull’attenti, beh, in quel momento capisci che sei al massimo della tua storia sportiva. E non ti abitui mai». Perché ci sono attimi che azzerano persino le Coppe dei Campioni, gli scudetti, le mille battaglie di club.
«Anche se sei stato alla Juve, al Milan o all’Inter, capisci che niente è come la nazionale»: Cesarone Maldini, come Azeglio, la butta sul sentimento. «La prima volta, l’emozione ti paralizza. Noi vincemmo 2-0 contro l’Irlanda del Nord, gol di Zola e Del Piero, li ringrazio ancora. Ricordo l’ultimo discorso nello spogliatoio, l’ingresso in campo, naturalmente l’inno e la bandiera. I ragazzi li conoscevo tutti, e loro me». Il momento più intenso è un rituale cavalleresco: «Quando consegni la maglia azzurra ai debuttanti, li guardi bene in faccia e gli dici che rappresentano il paese. Ricordo quando la diedero a me: era bellissima. Nella mia carriera non ho mai più provato niente del genere».
Gli otto commissari tecnici che sono venuti prima di Conte non hanno avuto tutti un facile debutto: gli ultimi tre, cioè Lippi, Donadoni e Prandelli, sono stati sconfitti. «Perdemmo in Islanda», ricorda Marcello «ma fu solo un episodio. Era agosto. Dissi subito che il nostro obiettivo sarebbe stato il mondiale 2006 e ci credevo. Avevo 56 anni e tutte le vittorie con la Juventus, però nulla è come la nazionale. Il mio errore fu ritornare: nel secondo esordio, se possiamo chiamarlo così, pareggiai 2-2 contro l’Austria».
La prima volta non gli girò mai benissimo, e neppure a Donadoni: «Contro la Croazia a Livorno, 2-0 per loro, pagammo un paio di ingenuità ma io ricordo solo le cose belle, la pelle d’oca, il senso di trovarmi su quella grande panchina». Invece Prandelli cadde contro la Costa d’Avorio, poche settimane dopo il disastro sudafricano: «I ragazzi erano un po’ frastornati, prendemmo gol da Kolo Tourè, preparammo quella sfida in appena due giorni. Fu anche il debutto di Balotelli».
Un totem come Arrigo Sacchi rischiò a sua volta la brutta figura, a Marassi contro la Norvegia nel ‘91: «Andammo sotto e nel finale pareggiò Rizzitelli, che avevo messo nel secondo tempo al posto di Baiano. Una serata emozionante e difficile, anche se per me il calcio è sempre lo stesso, sempre quello, al Bellaria o in nazionale non c’è differenza. In tribuna a Genova erano venuti quasi tutti gli amici di Fusignano, mentre mia moglie preferì restare a casa».
Uomini navigati, eppure friabili quando sulla giacca c’è lo stemma della Federcalcio. Persino il mitico Trap: «Quando esci dallo spogliatoio è da brividi, ma di più quando ti metti la mano sul cuore per sentire l’inno. Io mi emozionavo anche quando ascoltavo quello dell’Irlanda. Poi, la partita comincia ed è tutto come sempre. Il peso della maglia azzurra esiste, è concreto. Ricordo il debutto, 2-2 a Budapest, al Nepstadion, quello di Puskas. Prima di entrare in campo vorresti dire tutto a tutti, senti che l’aria è diversa e devi rispondere a milioni di persone».
Esordire in nazionale è una faccenda subito difficile, una gatta da pelare senza indugi e nessuna illusione. «Noi vincemmo 2-0 in Galles — ricorda Dino Zoff — eppure c’era già chi criticava, neanche ricordo bene perché». Ride, Dino, perché il tempo insegna a prendere meno sul serio le cose e se stessi. «Devo dire che l’emozione del debutto la sentii poco. In fondo, di inni in nazionale ne avevo già ascoltati tanti, o forse dipende dal mio carattere. In nazionale avevo trascorso una vita. Segnarono Fuser e Vieri, erano qualificazioni europee. È chiaro che il risultato è l’unico indicatore del tuo destino, il resto sono soltanto bei discorsi». Antonio Conte prosegue la tradizione dei ct d’impronta juventina, in un momento di profonda crisi. Se la caverà? «Certo che sì, io non condivido tutto questo pessimismo. Il calcio italiano è uscito da situazioni peggiori, e le qualificazioni per un Europeo esteso a 24 squadre non saranno certo impossibili. Il calcio è più semplice di quello che si pensa, non serve un premio Nobel per guidare la nazionale».