28/12/2014 11:48
CORSERA (A. COSTA) - Forse senza rendersene conto il 23 novembre scorso, al Bentegodi di Verona, Vincenzo Montella ha tirato un cazzotto, uno dei tanti che arrivano un po’ dovunque, ai buoni propositi del nostro calcio: la sua Fiorentina ha infatti battuto per 2-1 l’Hellas e fin qui nulla di strano, la palla è rotonda, e in 90 minuti (più recupero) può capitare di tutto. La cosa insolita è che tra i 14 giocatori da lui utilizzati quella domenica non c’era traccia di italiani: nelle 160 partite fin qui disputate in serie A nessuno è ancora arrivato a tanto. Insomma, stringendo, Verona-Fiorentina si è giocata con due soli italiani in campo sui 28 in totale: Agostini e Toni per gli scaligeri, visto che neppure dalle parti di Romeo e Giulietta scherzano in quanto a stranieri.
Al contrario del collega viola, Eusebio Di Francesco, guida tecnica del Sassuolo, si è divertito a esagerare nel senso opposto: a Roma con la Lazio, in casa con l’Empoli e a Palermo ha infatti schierato 13 italiani su 14 e in tutte e tre le circostanze a ricoprire il ruolo del «pesce fuor d’acqua» è toccato a Saphir Taider, nato in Francia ma naturalizzato algerino. Fiorentina e Sassuolo rappresentano le due facce della nostra serie A così come emerge dalle prime sedici giornate di campionato. Sono i poli opposti di un calcio che, al di là delle intenzioni di facciata, ha imboccato con decisione una deriva esterofila, e non sempre in base a ragionate motivazioni tecniche. Tenuto conto del fatto che i club nella scia della Fiorentina sono più di quelli che si accostano alla filosofia del Sassuolo, è evidente che, nonostante le norme recentemente emanate dalla Federcalcio, il futuro del nostro movimento in chiave azzurra è nelle mani di Padre Pio. A tutt’oggi delle 20 squadre che danno vita alla serie A ben 13 hanno infatti schierato più del 50 per cento di giocatori stranieri. Soltanto 7, per contro, quelle che hanno fatto ricorso in maggioranza alle maestranze di casa nostra (Sassuolo, Cesena, Cagliari, Empoli, Parma, Samp e Atalanta nell’ordine). In sostanza i calciatori italiani scesi in campo fino al break per le vacanze di fine anno rappresentano il 42,3 per cento del totale a fronte del 57,6 di stranieri schierati: numeri che rischiano di mandare il panettone di traverso ad Antonio Conte. Nota a margine: gli italiani presi in considerazione in questo studio sono quelli doc (Okaka e Ogbonna per intenderci) e non di riporto (Amauri, Schelotto e compagnia cantante).
Passando dal vago al particolare, quali sono i club che, con la loro politica di mercato, più di altri rinunciano alla loro identità nazionale presentando squadre globalizzate in cui l’italiano rischia di essere una lingua misteriosa? Sul podio troviamo il Napoli (11,2 per cento di giocatori italiani e conseguente 88,7 di stranieri), la Fiorentina (11,6 contro 88,3) e l’Inter (12,6 per cento contro l’87,3). Seguono Verona e Udinese (solo il 17,4 di «italians») e poi la Lazio, che per essere la squadra di Claudio Lotito, vale a dire del consigliere federale incaricato di riportare negli argini del buonsenso il nostro calcio, è tutta un programma: Pioli ha infatti schierato solo il 22,7 di «indigeni» e ben il 77,2 di stranieri. Come dire che il Grande Riformatore dovrà guardare al più presto in casa sua. Tra le big la Juventus campione in carica ha utilizzato il 44,1 per cento di italiani, il Milan il 41,1, la Roma il 32,7. Uno scenario sconfortante che suggerisce qualche riflessione a latere. Ad esempio: valeva la pena di investire 4 milioni di euro (netti) all’anno su un nuovo commissario tecnico per sentirlo lamentarsi come faceva Cesare Prandelli, suo predecessore decisamente a più buon mercato?