30/03/2015 14:27
CALCIO 2000 - "Un nuovo Totti? Difficile, vista la scarsa cura per i settori giovanili italiani". Inizia così, con un po' di rammarico e del sano realismo, il lungo viaggio di Francesco Zavaglia, agente di calciatori, Dottore in Economia e Commercio per lo stato, nonché per molti scopritore del Capitano della Roma. E non poteva che iniziare da qui, dalla brillante intuizione calcistica legata a quello che gli almanacchi avrebbero fatto poi diventare il più grande giocatore della storia giallorossa, questa traversata nel mezzo al mare del calciomercato. "Era una domenica mattina, le 10:30 circa. Ai tempi ero allenatore al Tor Sapienza, in Promozione. Prima di un incontro vidi un biondino piuttosto secco, magrolino".
Si può parlare di colpo di fulmine?
"Aveva dei colpi straordinari, e allora come oggi poteva risolvere le partite da solo, fa e faceva la differenza in tutto. Chiesi al presidente come si chiamava, lui mi rispose: 'Francesco Totti'. Grazie al suo aiuto e ad alcune conoscenze mi misi in contatto con la famiglia e da li nacque il tutto, il nostro rapporto professionale".
Il primo calciatore in assoluto che ha trattato?
"Pacione, dalla Roma passò al Cagliari. Poi Provitali. Poi Giannini e via via tutti gli altri".
Torniamo a Totti. Ci racconta il suo rapporto col giocatore?
"Una delle mie priorità, da sempre, è quella che il giocatore faccia il giocatore, chi cura gli interessi penserà a tutto il resto. Anche oggi lavoriamo a 360°, dobbiamo raccogliere tutte le esigenze, dalle assicurazioni ai trasporti, dai traslochi alle questioni fiscali".
Ad un certo punto, però, le vostre strade si sono separate…
"Si sono messe di mezzo persone esterne. Totti aveva rinnovato da poco il contratto, era il primo di un certo spessore, avrebbe guadagnato 500 milioni di lire al mese. Lo facemmo con Lucchesi, dg della Roma all'epoca. Erano i tempi della Gea, ed io lavoravo con Alessandro Moggi. Il nome del padre del mio partner purtroppo non era ben visto a Roma, così la famiglia di Totti decise di interrompere il nostro rapporto. Qualcuno forse li aveva convinti a rinunciare al nostro lavoro, il tutto perché il mio nome, a quel punto, poteva diventare scomodo".
E oggi, com'è il rapporto fra di voi?
"Vi cito un esempio: ero a Trigoria per Aquilani, il padre di Totti mi avvicinò e mi confidò che ero stato l'unico che avesse realmente fatto gli interessi di Francesco. Questo per dire che ho un rapporto di stima sia con lui che con la famiglia".
Ci racconta qualche retroscena riguardante la bandiera della Roma?
"Inizio col dire che credo abbia guadagnato meno di quanto meritasse. Ad inizio carriera sulla panchina della Roma c'era Bianchi, che proprio non lo vedeva. Pensate che mi fermò a Trigoria per dirmi che secondo lui il ragazzo era gestito male e che in Argentina ne avrebbe trovati a centinaia, di Totti. Gli risposi che allora l'Argentina avrebbe vinto tutto a livello Mondiale per i successivi 20 anni. Così decidemmo di andare alla Sampdoria di Eriksson e Spinosi".
Cosa bloccò lo sbarco a Genova?
"Sensi era incuriosito dalla mia testardaggine nei confronti del ragazzo. I primi di gennaio il presidente organizzò una partita contro l'Ajax di Litmanen, il grande sogno di Bianchi. Sensi pretese che Totti partisse titolare, e alla fine del match oscurò letteralmente Litmanen. Da quel momento Totti divenne Totti ed iniziarono i problemi fra tecnico e società".
Dica la verità, solo la Samp lo ha cercato negli anni?
"Macché… Milan, Juventus e Real Madrid su tutte. Ma Francesco ha sempre avuto l'ostinazione di rimanere a Roma e nella Roma, lui era un tifoso e mi sembra che negli anni l'abbia abbondantemente dimostrato".
Prima parlavamo della Gea. Ci spiega come nacque questa società?
"Con Alessandro Moggi avevamo costruito una struttura invidiata da tutti. Lavoravamo bene, a livello professionale funzionava tutto. Siamo stati anche i primi ad organizzare il famoso Expo Goal, dove si incontravano società e aziende commerciali per le sponsorizzazioni. Era un sistema innovativo per trovare introiti".
Cosa successe, poi, alla Gea?
"Ad un certo punto accadde quello che sappiamo, molto probabilmente per colpa di queste invidie di cui prima. Dicevano che derubavamo i calciatori e che alla Juventus ne avevamo troppi vista la presenza di Luciano Moggi. Ma noi all'epoca avevamo tre giocatori in bianconero, che oltretutto erano 3 nazionali. Conte, Iuliano e Tacchinardi, giocatori che hanno fatto la storia della Juventus e della Nazionale. La verità è che la Gea dava fastidio, così qualche operatore calcistico e qualche collega fecero sì che il giocattolo si rompesse. Il processo poi ha dato la quasi reale dimensione di quello che era la Gea, tutte le maldicenze e le dicerie alla fine sparirono. Ma vorrei ancora togliermi un sassolino dalla scarpa…".
Prego.
"Abbiamo sofferto di tutto, in quel periodo. Perquisizioni della Guardia di Finanza alle 6 la mattina, per esempio. Una volta cercavano la droga, qualcuno pensava che con i soldi delle società comprassimo e rivendessimo droga. La seconda per presunti versamenti illeciti ad una banca. Tutto falso. Ogni volta che usciva qualcosa sui giornali, avevamo la GdF a casa. Ci hanno fatti neri, e purtroppo le istituzioni non ci hanno protetto".
E le intercettazioni, allora?
"Hanno pubblicato solo quelle che volevano. Abbiamo dovuto convivere con cimici sotto i tavoli dei ristoranti, telecamere… neanche fossimo degli assassini".
E di Luciano Moggi, quindi, cosa pensa?
"Purtroppo era una figura scomoda per molte società italiane. Era capace e professionale, arrivava sui giocatori 6 mesi prima degli altri operatori di mercato. Qualcuno forse voleva vendicarsi, e ci siamo andati di mezzo anche noi".
Come siete riparti, lei ed il suo socio?
"Molti colleghi cercarono di saccheggiare il nostro portfolio, ma la forza di volontà, la voglia e l'abnegazione ci fecero ripartire con una nuova società, sempre basata sui giovani".
Ricorda con particolare affetto un giocatore della sua scuderia?
"Importanti ne ho avuti tanti. Dico Giannini, uno dei primi di un certo spessore".
Uno che l'ha fatta ammattire, invece?
"Allegri, senza dubbio. Era molto legato a Galeone, ovunque andasse il mister chiedeva ai dirigenti di prendere Allegri. Max all'epoca giocava a Padova, e Galeone l'ultimo giorno di mercato passò al Perugia. In una notte, con la massima fretta, dovemmo inventarci il trasferimento di Allegri da Padova a Perugia".
Fra gli affari che ha curato c'è quello che ha portato Felipe Anderson alla Lazio.
"Fui il primo a fargli il nome, alla Lazio. Mi dettero il mandato per trattarlo, ma c'era il problema del cartellino, che apparteneva in parte ad una società inglese. A gennaio non fu possibile chiudere per pochi minuti: Lotito dette l'ok a mezz'ora dalla chiusura delle trattative, non c'erano i tempi tecnici per fare l'operazione. Tare però con tenacia, volò in Brasile per 20 giorni, parlò col ragazzo e a giugno chiuse il colpo".
Altri paesi in cui pesca nuovi talenti o con cui è solito fare operazioni?
"I Balcani e la Spagna. L'operazione che ricordo nella Liga fu Zidane al Real Madrid, condotta da me e Alessandro Moggi. Fu un'operazione complicata, lunga, che soddisfò la Juve economicamente, il giocatore che avrebbe fatto la storia del Real e il club spagnolo".
Altre operazioni con la Spagna?
"Amedeo Carboni. Dopo un intervento al tendine d'Achille qualcuno diceva che non avrebbe più giocato. Ha fatto la storia del Valencia, poi. Ma anche Di Vaio, sempre al Valencia e poi al Monaco. Poi Tacchinardi, Maresca, Giannini allo Sturm Graz e Aquilani al Liverpool".
Ci dica la verità… In Italia non ha ancora scovato un nuovo Totti?
"È difficile, al giorno d'oggi, soprattutto in Italia. I settori giovanili non vengono curati, ma in Italia ci sarebbero tanti ragazzi che potrebbero giocare ad alti livelli, ma che purtroppo sono chiusi da tanti, troppi stranieri non all'altezza del campionato italiano".