17/06/2015 13:27
IL MESSAGGERO (A. ANGELONI) - Oggi è 17 giugno 2015, quattordici anni fa la Roma festeggiava il suo terzo scudetto. Aveva una grande squadra, un grande centravanti (anche due), un Totti nel pieno del suo splendore, un presidente (Franco Sensi) che faceva il presidente a tempo pieno e un tecnico (Fabio Capello), a detta di tutti, vincente, e infatti ha vinto (non come altrove) anche qui. Quella Roma aveva una struttura societaria non all’avanguardia, ma sicuramente funzionante: arrogante e semplice, a gestione familiare. Quella squadra è sfumata troppo presto, quel centravanti è durato poco poco, Capello ha vinto meno di quello che poteva e tutto è finito presto. Molto presto. Quattordici anni dopo, si prova a ripartire, puntando su quei valori. Anche se con caratteristiche e persone differenti. Trigoria è diventata americana, di soldi ne girano pochi. Ma la Roma ha scoperto di avere un presidente, che ha cominciato a parlare da presidente, che promette, mente, ma dice di voler agire. E agisce. Pallotta, con quella faccia da uomo della strada, ci ha detto che adesso comanda lui, così come un tempo. Per certi versi molto italiano e poco americano. Un presidente vecchio stampo, che insulta, che pensa che i giornalisti siano un manipolo di malfattori del verbo (fin qui siamo alle solite, ma va bene), che il suo allenatore sbaglia, che non ha scelto il preparatore giusto, che lo sponsor non c’è per demeriti di chi doveva portarlo, che Lamela è una specie di bidone trasformato in affare, etc etc. Pallotta domina la scena in una conferenza stampa fiume. Parole, per ora. Aspettiamo i fatti.
LA MANO DI JIM - Nel futuro adesso c’è la sua mano, operativa al cento per cento, non come prima, quando ha preferito lasciare lo stampo italiano al club. Ora la Roma parla americano, tranne rare eccezioni. Oggi ci sono suoi uomini ovunque, in società (Zecca, Baldissoni, Zanzi), tra i giocatori (Zubiria). Lui è il presidente commissario di una società commissariata e piena di controllori. Arriva a Roma come un tornado, sistema quello che c’è da sistemare, parla e se ne va. E qui lascia gli occhi.
RUDI CAPISCE E SI ADEGUA - Se adesso la strigliata l’ha data a Garcia, reo di non aver allenato bene la squadra e di aver concesso troppo ad alcuni giocatori, non è escluso che in futuro ci possa essere Sabatini a finire sotto accusa. Sabatini di soldi ne ha fatti fare alla Roma (le cessioni di Benatia, Marquinos, appunto Lamela, Osvaldo e così via) ma adesso va fatta la squadra, questo il messaggio lanciato dal presidente, che di Walter parla poco, quasi nulla. La Roma deve essere forte e competitiva, perché la Juve si deve raggiungere, perché se i giallorossi sono stati sfortunati con Iturbe, non è detto che la stessa cosa capiti alla Juve con Dybala. Messaggio recepito da Garcia, che guadagna 2,5 a stagione per portare risultati. E da Sabatini, che di acquisti ne deve sbagliare pochi o nessuno.
IL CENTRO DI TRIGORIA - Adesso, il paradosso: l’allenatore sostanzialmente ”sfiduciato”, diventa il trampolino per il rilancio. Garcia, come sostiene Pallotta, adesso deve solo allenare e far giocar bene la squadra. E deve smettere di pensare che la Roma debba finire sempre e solo seconda, perché i soldi per il centravanti ci sono e il mercato si farà, «non ci sono problemi». Garcia è un dipendente dirigente, che potrà contare sul numero uno dei preparatori, vincente nel calcio e pure nel ciclismo. Garcia stesso ha bisogno di riscattarsi, perché le parole del suo presidente non avranno fatto piacere. Ma ora si riparte dai baci, dai sorrisi e da un bomber vero. Pallotta ha creato le basi per una struttura all’altezza, dove l’allenatore dovrà essere non il punto di dipendenza. Esempio: la Juve, da Conte a Allegri, stessi risultati. Perché conta il club. Progetto ambizioso. Pallotta pare voglia provarci. Secondo i suoi comandamenti