24/10/2015 16:13
Bruno Conti ha rilasciato un'intervista a Walter Veltroni, pubblicata dal quotidiano sportivo. Questo un estratto delle sue parole:
«Facevo il chierichetto in parrocchia, a Nettuno. C’era, nell’oratorio, un campetto di terra battuta, circondato da mura di cemento. La palla non usciva mai, sbatteva e tornava in campo. Io passavo lì molto tempo a palleggiare, fare dribbling, tirare rigori e punizioni. Ma il mio cuore era diviso tra calcio e baseball. A Nettuno gli americani sbarcati per liberarci avevano portato non solo la libertà, il boogie woogie e le sigarette ma anche il baseball, loro sport nazionale. Per generazioni si è tramandata questa passione, venuta dal mare».
Quindi abbiamo rischiato di perdere l’ala destra che tutti gli italiani ricordano?
«In effetti sì. Vennero i dirigenti di una squadra importante, il Santa Monica, e chiesero a mio padre se potevano ingaggiarmi. Io ero un buon lanciatore, mancino, come sarei stato anche con i piedi. Il mio esempio era un mito del baseball nettunense, Alfredo Lauri. Mio padre chiese qualche giorno per riflettere, non era certo un tipo impulsivo. Poi prese la sua decisione, ero troppo piccolo, non era il caso. E grazie a quel padre apprensivo o forse solo responsabile sono arrivato fino a Madrid».
Dalla Cecchignola al Tre Fontane non è poi così grande, la distanza.
«Infatti l’anno dopo torno a Roma. Ma non feci tanto bene. A fine campionato mi chiamò Anzalone, il presidente, per dirmi che la Roma aveva bisogno di un bomber, che loro avevano individuato Pruzzo e che il Genoa, in cambio, aveva chiesto che io tornassi lì. Insomma, mi sacrificai per Pruzzo. E la cosa più difficile fu dirlo di nuovo a mio padre...».
I ritorni sono sempre difficili...
«Infatti fu un brutto campionato. Rischiammo di finire in serie C. Dopo l’anno difficile di Roma e questo deludente di Genova sinceramente vacillai. Ma venne in soccorso, come sarebbe successo tante volte, Nils Liedholm. Lui volle riportarmi a Roma, per la gioia di mio padre».
Doveva essere, dai racconti che tutti ne fate, un gigante umano, non solo tecnico.
«Una persona unica. Andava a vedere le partite delle squadre giovanili, ci seguiva, amava i calciatori fantasiosi e tecnici. Una volta mi mise in grave imbarazzo. Io ero ancora un ragazzo, giocavo nella Primavera. Mi chiamò davanti alla prima squadra, Cordova e altri campioni, e mi disse: “Bruno, fai vedere come si fa lo stop di interno, il tiro al volo...Io mi vergognavo tantissimo ma lui faceva tutto con tale sincerità che veniva amato sempre, da tutti. Liedholm era un maestro di calcio. Ricordo che Rocca, giocatore magnifico, ai primi tempi scendeva con irruenza sulla fascia e poi metteva al centro dei cross che però non erano misurati. Lui allora si fermava ore con Francesco per provare con lui i traversoni. Restavano sul campo loro due. Anche così Rocca divenne quel fenomeno che è stato, e che bisognerebbe tutti ricordare un po’ di più».
Mi parla di Di Bartolomei e di Pruzzo?
«Ago era il nostro leader. Se c’era un problema con la società andava lui a parlare, si occupava di noi. Era molto intelligente, taciturno forse ma anche allegro, capace di organizzare scherzi. Aveva una intelligenza speciale anche in campo. Liedholm lo fece giocare anche dietro, per la visione che aveva del gioco e le sue attitudini tattiche. Pochi giorni prima che si togliesse la vita, lo avevo invitato a una manifestazione che avevo organizzato per un nostro compagno, Fabio Casadei, che era rimasto paralizzato per un brutto incidente. Lui fu subito disponibile, era un uomo generoso. Pochi giorni dopo, quella mazzata. Lui non mi aveva mai fatto un accenno a un disagio, a problemi. Io sono ancora qui a chiedermi perché. Pruzzo? Lui è Brontolo. Non gli andava mai bene nulla. Se l’autista del pullman andava piano gli diceva di accelerare, se no il contrario. Con lui ho avuto un rapporto speciale. Ero il suo angelo custode, il suo servitore. Quando scendevo sulla fascia destra e arrivavo a crossare sapevo che l’avrei trovata, la testa del bomber. Lui c’era sempre. In Nazionale non ebbe fortuna. Non credo per il suo carattere ma perché Bearzot era innamorato di Rossi e lo voleva recuperare nel modo giusto, senza tensioni».
Parliamo del momento più brutto, la finale di Coppa dei Campioni all’Olimpico e il suo rigore sbagliato.
«Noi eravamo sotto una pressione micidiale. In città non si parlava d’ altro da settimane. Il Liverpool era abituato a queste situazioni. Noi no. E i rigori sono stati lo specchio di questa situazione. Io ancora ricordo come un incubo Grobbelaar che faceva le moine, non stava mai fermo, faceva finta di svenire. Irritante. Io tirai in curva quel rigore. Ma dopo averlo sbagliato pensai che avremmo recuperato, che anche loro avrebbero fatto un errore. Fu, dal punto di vista sportivo, una tragedia. Una ferita che sanguina ancora. Nello spogliatoio nessuno parlava. Liedholm aspettò un po’ e poi disse: “Smettetela di disperarvi. Siete stati bravi, avete fatto una buona partita contro un avversario molto forte. Ora concentriamoci sulla finale di Coppa Italia”. Vincemmo, fu un riscatto. Almeno in parte».
Poi iniziò ad allenare i giovani della Roma.
«Sì, mi piaceva molto. Mettevo in pratica gli insegnamenti dei miei maestri e la mia esperienza. Mi piaceva tornare in campo, mettere la tuta, insegnare calcio. Un giorno mi chiamarono in società per dirmi se volevo fare il dirigente del settore giovanile. Io in verità ero dispiaciuto di smettere di allenare, ma dissi che per la Roma facevo questo e altro. Ho cominciato a girare i campi di periferia. Ho trovato De Rossi, Aquilani, Bovo, Florenzi, Bertolacci, Romagnoli. Mi piaceva il rapporto con la gente, con le famiglie».
Però poi tornò in campo, per allenare, in un momento drammatico per la Roma...
«Si rischiava di andare in serie B. Fu un periodo durissimo. Non con i ragazzi, con i quali avevo uno splendido rapporto. Ma non avevo potuto scegliere la rosa e il clima era difficile. Feci esordire un po’ di giovani, cercai di portare serenità. Mi uscirono tutti i tic del mondo. Non dormivo la notte. Ci siamo salvati alla penultima giornata a Bergamo. Alla fine della partita ci abbracciammo con Rosella Sensi, piangendo. E poi arrivammo alla finale di Coppa Italia».
«Francesco è la Roma. Guardi, una squadra non è fatta solo dei giocatori. Ricordo Giorgio Rossi, il massaggiatore storico e Fabbri, un accompagnatore, per dire persone che hanno fatto silenziosamente molto per i colori giallorossi. Francesco lo capisci se conosci la sua famiglia, le sue radici nella città, i suoi valori fatti di sacrifici e di amore per la squadra. Quanto avrebbe potuto guadagnare se fosse andato in Spagna o in Inghilterra? Ha dato alla Roma le sue ginocchia e la fatica di ricominciare ogni volta. Lo ammiro. Come calciatore e come persona».
(corsport)