13/10/2015 13:16
IL MESSAGGERO (S. CARINA) - Chissà l’effetto che fa riscoprirsi 5099 giorni dopo il debutto con l’Anderlecht in Champions, tagliare il traguardo delle 500 partite con la Roma. Un’emozione che Daniele De Rossi proverà tra 4 giorni contro l’Empoli. Sabato saranno trascorsi 13 anni, 11 mesi e 24 giorni da quando Capello, il 30 ottobre del 2001, decise di dare una chance a 'quel ragazzino biondo', figlio del tecnico della Primavera, Alberto. Ne ha fatta di strada Daniele. E una cosa lo ha sempre contraddistinto: non avere peli sulla lingua. Diretto, a costo di sembrare gradasso, come quando in un’intervista prima dei mondiali brasiliani, affrontò a suo modo la questione stipendio: «Sono il più pagato della serie A con sei milioni e mezzo a stagione? E allora? Secondo i tifosi mi dovrei vergognare quando non gioco bene, come se mi facesse piacere non essere sempre all’altezza. Se un cantante gira in Jaguar è figo, se ci gira un calciatore è stronzo. Non l’ho mai nascosto, quando c’era da rinnovare il contratto... Gioco per chi mi dà più soldi». Sincero, a costo di far male a chi avrebbe preferito leggere o ascoltare parole diverse. Ma De Rossi è così. Anche perché la sincerità non va tirata in ballo soltanto quando fa comodo. Daniele va ascoltato anche quando ricorda «di avere un solo rimpianto, quello di donare alla Roma una sola carriera» o studiato in silenzio. Ad esempio, il 20 maggio del 2010. Il suo gol al Chievo da trenta metri alimenta l’illusione dello scudetto che svanisce al 12’ della ripresa con la rete di Milito a Siena. Al fischio finale, De Rossi girovaga in campo. Sembra un pugile suonato. Ha la maglia tirata sul volto a coprirgli apparentemente bocca e naso ma che invece nasconde l’emozione di un uomo che guarda i 20mila tifosi che hanno invaso il Bentegodi con gli occhi di 'quel ragazzino biondo' di tanti anni prima.
ALBUM DEI RICORDI «A 20 anni me ne sarei dovuto andare via dall’Italia»: fortuna vuole che non lo abbia fatto. E forse sabato, ancora una volta, apprezzerà la decisione di esser rimasto. Con 499 gare alle spalle, l’album dei ricordi è pieno. Ma come dimenticare il primo gol, al Torino (maggio 2003), coinciso con la prima maglia da titolare. Un tiro da 35 metri che colpisce il palo, beffa Sorrentino e fa alzare in tribuna il presidente Sensi, incredulo. Difficile anche non ricordare la vittoria in rimonta nel 2008 sul Milan. Rossoneri avanti con Kakà poi ripresi da Giuly e superati da Vucinic in un paio di minuti. Sullo 0-1, però, Pato corre da solo verso la porta di Doni. Daniele, stile Vierchowood del secondo scudetto, gli recupera 20 metri e supportato da un Olimpico impazzito gli toglie il pallone e fa ripartire l’azione. L’ultimo flash è più recente, a Livorno. È la prima di Garcia (25 agosto 2013). Estate in bilico con sirene inglesi respinte qualche giorno prima. La Roma, reduce dallo schiaffo del 26 maggio, fatica. Decide Daniele nella ripresa regalando i primi tre punti a Rudi e tornando al gol dopo 469 giorni di astinenza. A fine gara dirà: «Dentro Trigoria tutti mi vogliono bene, è una famiglia, la mia seconda casa. Il gol è per noi». In quel noi, c’è forse racchiuso il binomio De Rossi-Roma