07/11/2015 18:38
LA REPUBBLICA (E. SISTI) - Alto, imponente, rapido, flessuoso, regale, con quel cognome che da noi farebbe pensare a un centravanti capace di arrampicarsi pure sui muri, o mimetizzarsi dentro l'area, Edin Dzeko non ama le convenzioni o forse non riesce a essere abbastanza convincente quando sconfessa la propria stazza A Pjanic e Maicon dice sempre: «Datemela bassa!». Lui è un centravanti con i piedi, uno che paradossalmente, ma anche sinceramente, riconosce: «Non sono bravo di testa». Se l'unica rete segnata finora in campionato è arrivata con un colpo di testa è soltanto una coincidenza. Ama giocare a terra, chiamare le sponde, favorirle, vivere di scambi, come un ferroviere d'altri tempi. Edin non è un ragazzino, il prossimo 16 marzo compie 30 anni e non c'è stato un solo minuto della sua brillante carriera di top player in cui abbia avuto paura: «Ho visto le bombe cadere a pochi metri da me, di cosa posso aver paura? Del Barcellona, di un marcatore, di una delusione? Di niente». Nasceva a Sarajevo, Edin, mentre nasceva la guerra. Un giorno sua madre Belma lo chiamò, voleva che tornsse a casa, Edin stava giocando a pallone in un campetto là vicino. Edin obbedì e poco dopo una bomba cadde proprio su quella spianata: «Mi salvò la vita». Ma non durò molto. La casa di famiglia venne distrutta, in quindici si rifugiarono nel piccolo appartamento dei nonni. Cominciò a 17 anni da centrocampista ( ecco perché adesso invoca che gli cerchino i piedi) dello Zeljeznicar, nelle prime quaranta partite realizzò cinque gol dando sempre la sensazione di essere, per motivi che nessuno allora sapeva spiegare, fuori posto, o meglio posizione. Ai dirigenti del club non parve vero ( «Abbiamo vinto alla lotteria?») che il Teplice, squadra ceca che viveva discrete fortune, offri per il ragazzo, già U21, la 'folle" cifra di 30 mila euro attuali. Fu lasciato andare senza rimpianti. Soltanto dopo due anni, quando il Wolfsburg lo prese per 30 milioni, ci si rese conto che forse lo si poteva trattenere ancora un po'. In Germania maturò, fu sempre più chiara la sua inclinazione alla manovra, eppure fece 66 reti in 111 partite togliendosi la straordinaria doppia soddisfazione, con Magath in panchina, di regalare al club della Volkswagen, il primo titolo nazionale e di diventare con Grafite (Edin 26 gol, Grafite 23)la coppia d'attaccanti più prolifica dell storia del calcio tedesco in una sola stagione, superando addirittura quella composta da Hoeness e Miiller. Quando arrivò al City Edin rimase esterrefatto: «Non so se sarò in grado di adattarmi». Stava mettendo le mani avanti. Qualità e destino lo hanno portato, anche in Inghilterra, a un traguardo epocale: riportare il City alla vittoria in campionato dopo 35 anni. Quasi banale, per un tifoso giallorosso, sperare che il miracolo si ripeta, che anche a Roma il centravanti che si mimetizza in area possa portare in dote il magic touch di elevare un gruppo a livelli raramente frequentati. Per ora c'è chi lo ama per quanto sa dedicarsi ai compagni, per il gusto, quasi perverso, del sacrificio personale ( «Non m'importa restare a secco, io voglio vincere» ) , ma c'è chi lo considera un corpo estraneo. Di fatto la Roma andrebbe costruita su di lui. Poche volte, fi-nora, s'è avuta la sensazione che si stia lavo- rando in questa direzione. Il suo contratto con la Roma scadrà il 30 giugno del 2020. C'è tempo in teoria. Ma in pratica della sua indubbia grandezza c'è bisogno subito. Ora.