05/12/2015 15:30
MILANO FINANZA (A. DE BIASE) - Sceicchi arabi e grandi corporation cinesi. Ogniqualvolta in Italia si parla della possibile vendita di un club di calcio di Serie A è a questi soggetti che si guarda come potenziali investitori. E invece, nonostante importanti player provenienti da Emirati Arabi, Qatar e Cina abbiano investito miliardi di euro nell'industria e nella finanza italiana (tra Alitalia, Unicredit, Pirelli, Terna e Valentino, giusto per fare qualche nome), nel calcio, nonostante la Serie A rappresenti ancora uno dei principali campionati del mondo, hanno preferito guardare altrove: in Inghilterra, Francia e Spagna in particolare.
Eppure in un passato più o meno recente le occasioni per fare affari in Italia non sono certo mancate. Il primo grande investimento cinese nel calcio europeo avrebbe dovuto riguardare l'Inter. Qualche anno fa Massimo Moratti, prima di cedere il controllo del club all'indonesiano Erick Thohir, era arrivato a un passo dal convincere il colosso China Railway Construction Corporation e Qsl, un gruppo attivo nella gestione dei diritti sportivi, a rilevare il 15% dell'Inter. Dopo una trattativa durata alcuni mesi, nell'agosto del 2012 era arrivato anche il comunicato ufficiale della società, che annunciava la finalizzazione dell'accordo. Intesa che invece non si è mai concretizzata, aprendo la strada al passaggio del controllo dell'Inter alla proprietà indonesiana.
Ma quello dell'Inter non è l'unico caso in cui soggetti cinesi o arabi sono stati indicati come potenziali acquirenti di quote di un club italiano. La Roma, prima di passare sotto il controllo di James Pallotta era stata accostata al fondo di Abu Dhabi, Aabar Investment, grande azionista di Unicredit e oggi in affari (tramite la controllante Ipic) con il Real Madrid per la restyling dello stadio Santiago Bernabeu. Ma anche in tempi più recenti, quando la banca guidata da Federico Ghizzoni mise in vendita la sua quota del 20% nel club giallorosso, si parlò con insistenza di un interessamento del gruppo cinese Hna (una conglomerata con interessi nel trasporto aereo, nel turismo, nell'immobiliare, nella grande distribuzione, nella finanza e nella logistica) per la quota di minoranza della Roma. Ma anche in quel caso non se ne fece niente.
Esemplare a questo proposito è il caso del Milan. La società rossonera, che grazie alla forza internazionale del suo brand è l'unica in Serie A ad avere uno sponsor internazionale del calibro di Emirates Airlines, è stata più volte accostata a investitori arabi e cinesi. Nella primavera del 2009, prima che Silvio Berlusconi e Adriano Galliani decidessero di sacrificare Kaká cedendolo al Real Madrid per salvare i conti del club, sulla stampa si era parlato di un interessamento dell'emiro di Dubai, lo sceicco Mohammed bin Rashid Al Maktoum. Nell'ultimo anno, invece, da quando nel dicembre dello scorso anno ha fatto il suo ingresso sulla scena il broker thailandese Bee Taechaubol, subito accreditato dai media nazionali di importanti entrature presso istituzioni finanziarie arabe (Ads Securities) e cinesi (Citic), il Diavolo è stato via via accostato a tutta una serie di soggetti asiatici che finora si sono ben guardati dal presentare la benché minima offerta alla Fininvest: dalla misteriosa dama cinese, «avvistata» a Casa Milan o nella residenza dell'ex premier ad Arcore, a Wang Jianlin di Wanda Group, dal patron della Future Cola, Zong Qinghou, all'uomo di affari di Hong Kong Richard Lee fino all'imprenditore Poe Qui Ying Wangsuo, noto anche come Mr Pink. Ma anche in questo caso, in attesa di sapere se Mr Bee riuscirà a trovare i 480 milioni necessari a rilevare il 48% del Milan, dalla Cina non è ancora arrivato un euro per le casse del club rossonero.
Se in Italia l'unico vero investimento nel calcio è stato quello di Thu Xiaodong e Wang Qiangming, i due imprenditori che hanno rilevato il controllo del Pavia Calcio in Lega Pro, è all'estero che si sono chiusi i veri affari. Dopo gli investimenti effettuati negli anni scorsi da Abu Dhabi e Qatar su Manchester City e Paris Saint-Germain, il 2015 è stato l'anno della Cina. L'acquisizione di Infront, la multinazionale con sede in Svizzera che commercializza i diritti televisivi del calcio (tra cui quelli della Serie A) e di altri sport, da parte di Wanda Group è stato solo l'inizio. Lo scorso gennaio infatti Wang Jianlin ha anche acquistato il 20% dell'Atletico Madrid per 52 milioni di dollari. Sempre in Spagna il gruppo cinese Rastar ha sottoscritto un accordo che gli permetterà di acquistare entro i prossimi cinque mesi una quota dell'Espanyol di Barcellona, che potrebbe esser inizialmente del 41 % per poi arrivare successivamente al 56%, investendo sin all'inizio una cifra che si aggirerebbe intorno ai 45 milioni di euro. Lo stesso ha fatto il gruppo Cefc China Energy Company, il sesto gruppo privato cinese attivo nel settore energetico e con importanti interessi in Repubblica Ceca, che a settembre ha rilevato il 60% dello Slavia Praga. Chi invece ha davvero fatto le cose in grande sono stati la China Media Capital Holdings di Li Ruigang, magnate dei media considerato il Rupert Murdoch cinese, e Citic Capital, controllata dall'omonimo colosso bancario, più volte indicato come uno dei possibili partner del broker thailandese Bee Taechaubol nell'acquisto del 48% del Milan. China Media e Citic martedì 1 dicembre hanno annunciato infatti l'ingresso nel capitale del City Football Group, la holding cui fanno capo tra gli altri Manchester City e New York City FC, con il 13%, mettendo sul piatto 400 milioni di dollari (376 milioni di euro) e valorizzando l'intero gruppo 3 miliardi di dollari (2,82 miliardi di euro).
Ma soffermarsi sulla congruità della cifra spesa per comprare il 13% del City Football Group significa perdere di vista l'aspetto più rilevante della vicenda, ovvero la dimensione politico-economica del nuovo calcio globale. Una dimensione in cui a prevalere non sono più solo le logiche degli affari, che hanno caratterizzato il business del calcio nell'ultimo decennio, ma anche le dinamiche geopolitiche. Gli attori coinvolti nella compravendita di quel 13% sono infatti lo sceicco Mansour bin Zayed Al Nahyan, della famiglia reale degli emirati, e due colossi dell'economia cinese benedetti dal presidente della Repubblica Popolare, Xi Jinping. Il City Football Group fa parte del patrimonio privato dello sceicco Mansour, che non ha certo bisogno di fare cassa per finanziare i piani di espansione del club e ha venduto quel 13% esclusivamente nell'ottica di cercare alleanze politico-finanziarie che vanno oltre il caldo. Sul versante cinese ci sono invece China Media Capital Holdings e Citic, due operatori economici che, oltre a cercare opportunità di business nel calcio, rispondono anche al disegno strategico di Pechino volto a far diventare la Cina una potenza calcistica mondiale nel giro di un decennio, non solo in termini economici (l'obiettivo è portare l'industria dello sport a rappresentare l'1% del pil nazionale entro il 2025 rispetto all'attuale 0,6%) ma soprattutto sotto il profilo sportivo. Un obiettivo che Xi Jinping intende raggiungere diffondendo la pratica del calcio tra i giovani cinesi, ma che necessita allo stesso tempo di formazione, di scuole calcio, di accademie. Insomma del know how custodito dai club europei. Non per niente l'Ajax, la società olandese che vanta uno dei migliori settori giovanili a livello europeo, è considerata come il target ideale per un prossimo takeover da parte di un gruppo cinese.
Lo sforzo economico messo in campo dal governo di Pechino e dalle grandi corporation cinesi da un lato apre grandi opportunità di business in Cina per i club europei, ma dall'altro potrebbe non dare i risultati sperati da Xi. Secondo l'ex ct della Nazionale italiana Marcello Lippi (uno che il calcio cinese lo conosce bene avendo allenato il Guangzhou, con cui ha anche vinto una Champions League d'Asia), «la Cina non arriverà presto a una finale mondiale perché non pensa calcio. Una squadra non può diventare campione del mondo se non si crea una mentalità nel Paese e un'abitudine a praticare questo sport», ha sottolineato. Secondo il ct, campione del mondo nel 2006, il calcio nelle scuole, il potenziamento dei settori giovanili e la presenza di istruttori bravi sono elementi importanti, ma «si diventa campioni o grandi attaccanti sul prato dietro casa, da soli, non nelle accademie. Alla Cina questa mentalità brasiliana manca e anche in Italia si sta atrofizzando». Forse è anche per questo motivo, oltre che per le difficoltà burocratiche che si riscontrano in Italia nella costruzione di nuovi stadi, per la scarsa tutela del merchandising delle squadre di calcio e per la difficoltà per i grandi club a pesare nelle decisioni in Federazione e in Lega, che i grandi capitali cinesi e arabi sono rimasti finora lontani dalla Serie A.