LA REPUBBLICA (E. SISTI) - Gli operai stavano ancora spostando l’altare, avevano appena coperto la navata centrale con delle tegole di fortuna per far affluire i fedeli col rosario in mano e il cuore colmo di speranza, portato i confessionali, sistemato i banchi. Il tabernacolo era ancora coperto da un telo e la perpetua stava ancora ripiegando la biancheria del parroco nei modesti armadi della sagrestia. Poi i lavori si sono fermati. La «chiesa al centro del villaggio» non c’è mai arrivata. È rimasta una bella frase che ha entusiasmato il popolo affamato di scudetto.
Adesso
Garcia non c’è più. Ha fatto le valigie con civile compostezza, cambiato da ciò che avrebbe voluto cambiare. Ieri ha salutato uno per uno tutti gli esseri umani che ha incrociato a Trigoria. Ha sbaraccato portandosi dietro il suo mistico progetto, chiaro all’inizio, farfugliato alla fine. Da mesi allenava a spintoni, senza un filo logico, una squadra raffazzonata, priva di forza e di carattere. A giugno Garcia fu a un passo dall’esonero (arriva Montella o Mazzarri?). Era fuori di sé, si sentiva tradito. Un martire da 2,5 mln all’anno. Pallotta lo rimise in carreggiata dopo un folcloristico pit-stop al de Russie: «
Ti darò una squadra così forte che potrei allenarla anch’io». Ma i rapporti non erano più così stretti da non lasciar passare una battuta: «
Pallotta mi ha detto che mi darà una squadra che potrebbe allenare anche lui. Bene. Ora so che allenerò i Boston Celtics». Non si comincia così una stagione. A meno di non volerla interrompere bruscamente, travisando le doti di
Dzeko.