11/05/2016 13:08
IL MESSAGGERO (S. CARINA) - A 90 minuti dalla fine del campionato, il déjà vu è già servito. Ancora una volta la stagione della Roma è costellata dai rimpianti. Quello che doveva essere si è trasformato in poteva e l’appuntamento con la vittoria è rimandato. A meno di miracoli targati Frosinone, a Trigoria peggiorano la posizione in classifica dell’anno precedente, proprio nella stagione che invece era iniziata con velleità di successi. L’acquisto di Dzeko che ricalcava nell’immaginario popolare quello di Batistuta nel 2000-01 e la partenza ad handicap della Juventus (-11 dopo 8 giornate) lasciavano trasparire nei diretti interessati (Baldissoni: «Attrezzati per vincere lo scudetto», 26 ottobre 2015; Sabatini: «Per lo scudetto ci siamo anche noi», 11 novembre 2015) propositi di vittoria. E invece la Roma ha dovuto fare i conti con la realtà: la polvere messa sotto il tappeto nella querelle tra Garcia e il club, i gravi errori di valutazione su Castan e Strootman, il mercato incompleto, hanno portato all’addio di Rudi (non esente da colpe). Tardivo ma pur sempre efficace. Bisogna infatti dare merito a Spalletti di essere riuscito in un piccolo miracolo: più che recuperare i 5 punti all’Inter o i 4 alla Fiorentina e giocarsi la possibilità (a questo punto remota) del secondo posto, al tecnico è riuscito il capolavoro di trasformare un gruppo spento nelle gambe e nella testa in una squadra.
MODUS OPERANDI DISCUTIBILE È Lucio quindi l’unico che può sorridere. Per gli altri serve una profonda riflessione. Al netto di quello che accadrà con Sabatini che non perde occasione per ribadire come non riesca «a guardare oltre il 30 giugno», domenica Spalletti è stato chiaro: «Chi vuole andare via, deve andare via». L’augurio, però, è che non si assista all’ennesima rivoluzione. La partenza non invita all’ottimismo: già il portiere (Alisson) e il terzino sinistro (Digne non sarà riscattato) saranno diversi. Stravolgimenti che in questi anni hanno fatto bene alle casse del club, meno alla squadra. Perché il problema paradossalmente non è cedere e poi ricomprare (lo fanno in tanti) ma rivoluzionare ogni anno l’undici titolare. Quello sceso in campo contro il Chievo (Szczesny, Florenzi, Manolas, Ruediger, Digne, Nainggolan, De Rossi, Pjanic, El Shaarawy, Perotti, Salah) presentava 6 calciatori diversi rispetto a quello della stagione 2014-15 (grafico a fianco, ndc). Sette se si considera la posizione di Florenzi. Un caso? No, una routine. Confrontando in questi 5 anni le formazioni titolari con quelle della stagione precedente, si noterà che quando la Roma ha cambiato meno, ha inserito minimo 5 calciatori nuovi. Tradotto: mezza squadra. È accaduto tra il primo Rudi e il Garcia 2.0 (Torosidis, Manolas, Yanga Mbiwa/Astori, Holebas, Nainggolan). Tra Zeman e il primo Rudi (De Sanctis, Maicon, Benatia, Strootman e Gervinho). E tra Luis Enrique e Zeman (Goicoechea, Piris, Marquinhos, Castan, Balzaretti, Bradley/Tachtsidis e Florenzi).
RINCORSA VANA Non è però così che si costruiscono le squadre vincenti. La Juventus lo dimostra. Tolta questa stagione dove ha ringiovanito la rosa (e ha comunque rivinto), negli anni precedenti si è limitata ad inserire un paio di elementi di qualità nell’undici-base. Il contrario della Roma che ha sempre rivoluzionato almeno un reparto. E così facendo si partecipa ma non si compete sino alla fine. I risultati lo confermano: le 2 volte che i giallorossi sono arrivati secondi lo hanno fatto a distanze siderali (17 punti). E quest’anno, a meno di sorprese, scivolano al terzo posto. Far finta di nulla e accontentarsi, significherebbe nascondere la testa sotto la sabbia.