25/08/2016 13:21
IL MESSAGGERO (U. TRANI) - «E' la squadra più forte che ho allenato nella mia carriera». Cioè la Roma umiliata dal Porto nel playoff. La sentenza di venerdì scorso, prima della nuova figuraccia all'Olimpico, non è caduta nel vuoto. Anche perché a esporsi è stato Spalletti che ha guidato, più di 10 anni fa, giocatori più bravi degli attuali, tra i quali anche due che sono ancora qui, cioè i capitani De Rossi e Totti, avuti nel loro periodo più bello. Lucio ha detto quella frase. Ma, già preparandoci a ricevere sbattuta in faccia la solita smentita, non ha mai pensato davvero di avere il top nel suo spogliatoio. Il concetto, però, è di sicuro in sintonia con la gestione Usa e sopratutto con il management italiano. L'esagerazione resta sempre d'attualità e di moda. Spocchia delle mie brame.
PRESUNZIONE INFINITA Bisogna stupire, anzi comunicare con effetti speciali e definitivi. A Trigoria è così, dall'estate del 2011: il meglio della professionalità è lì dentro, ormai centro di accoglienza di dipendenti (numerosissimi) di ogni genere e nazionalità. Fuori, invece, regna l'incapacità degli altri. Quindi non c'è da sorprendersi se Lucio, chiamato al posto del depotenziato Garcia, abbia messo il bollino qualità sulla rosa che è sfiorita prima ancora di entrare in Champions. Ha addirittura voluto superare anche Sabatini che, meno di un anno fa, si sbilanciò: «Florenzi può diventare come Dani Alves». Il toscano ha rilanciato: «Paredes è più forte di Pjanic». Le cartucce, a quanto pare, non sono finite. E non conta quello che si urla. Ma il rumore che si fa. «All'Olimpico comandiamo noi». Risultato: 0 a 3.
SENZA LOGICA Spalletti non è più quello della prima avventura nella capitale. Si è adeguato al clima di superiorità sul resto d'Italia (e del pianeta) che si predica nella Roma. Come tecnico, invece, è rimasto lo stesso. Scegliendo, oggi come ieri, il gioco. E' arrivato a metà gennaio e, in poche settimane, ha restituito un'identità tattica alla squadra. Eppure, nella notte cruciale, ha sbagliato. Capita a tutti gli esseri umani, almeno fuori da Trigoria. Ha piazzato De Rossi in difesa per averlo come playmaker lì dietro, dimenticandosi che ad Oporto il centrocampo si era fatto apprezzare a 360 gradi. Non volendo ha bocciato Fazio. Che, nel Siviglia, ha giocato pure da mediano: lento, ma un piede discreto. Ha invece mandato allo sbaraglio Paredes, riproposto Emerson nonostante le gaffe dell'andata e sguinzagliato Iturbe anche oltre le linee del campo. Ha ridato spazio a Szczesny, ignorando El Shaarawy e Totti. Anche loro, come il portiere, hanno portato la squadra al playoff: 13 gol in 2. Contraddizione totale. In panchina, in campo e fuori.
NUDA PROPRIETÀ Il nervosismo dei giocatori è inconcepibile. E' stato il vero limite nel playoff, all'andata e al ritorno, con le 3 espulsioni sciocche di Vermaelen, de Rossi ed Emerson. La Roma schiacciata dalla pressione. Non della tifoseria, capace di accompagnare comunque la squadra in 40 mila. La società insistendo sulla «gara fondamentale» e facendo sempre riferimento agli «introiti vitali» della Champions. Spalletti ha provato a deresponsabilizzare i giocatori che, a vedere certi comportamenti isterici, non lo hanno certo ascoltato. Lucio si è giocato la qualificazione senza 6 difensori. È l'unico alibi. Non lo è per la società che continua a prendere rinforzi solo in base alla formula di pagamento. Mai scegliendo. La rosa è corta. Mancano il regista titolare, il terzino sinistro di scorta e anche la prima punta da alternare a Dzeko (può uscire a Cagliari: la formula preferita del tecnico è senza centravanti). Anche la dirigenza è incompleta. Non c'è la figura di spessore che sappia prendere di petto la situazione (e, se serve, il calciatore). Confermato l'arrivo del pacato Gandini dal Milan come amministratore delegato. Dovrà rivedere il regolamento interno e indirizzare soprattutto l'allenatore. Che, intanto, ha usato, nell'incontro con la squadra, le parole agrodolci di sempre: «Gli alibi sono dei deboli». Meglio sapere che De Rossi, all'antidoping, si è scusato con Maxi Pereira, costretto a spostarsi sulla sedia a rotelle (subito operato a Oporto: lussazione al tendine della tibia). Colpa dell'arbitro, secondo Pallotta.