16/12/2016 15:55
LIBERO (D. DELL'ORCO) - C’è qualcosa di peggio dell’avere un nemico? Sì, non averlo affatto. Perché se così fosse le ipotesi sarebbero solo due: o si è così tanto deboli da non riuscire ad entrare in competizione con nessuno, oppure si è così tanto distratti da non capire quale sia il nemico. Ci sarebbe pure una terza via, in realtà. Essere talmente forti da non avere rivali. Quest’ipotesi, parecchio remota, è la principale nemica dello sport. Andrea Agnelli lo sa bene. D’altronde, se in 6 anni è riuscito a far vincere dieci trofei alla sua Juve (di cui 5 scudetti consecutivi, come fece solo la Vecchia Signora dalla stagione ’30-’31 a quella ’34-’35) un motivo ci sarà. Siccome però quest’anno a una squadra già imbattibile si sono aggiunti acquisti per 160 milioni, tra cui il miglior attaccante (Higuain) e il miglior trequartista (Pjanic) della Serie A, il rischio di considerare già in bacheca Scudetto, Champions e Coppe nazionali varie è diventato troppo alto. Agnelli, allora, quei nemici che in campo in effetti non ci sono se li è dovuti inventare: i gufi. Martedì sera, durante la serata riservata a dipendenti e sponsor, ha svestito i panni del Presidente e indossato quelli del capo ultrà: «Abbiamo tutte le forze che giocano contro di noi, il principio è che non importa chi vince, l’importante è che non vinca la Juve: questo è l’ambiente che c’è intorno a noi. Ma noi vogliamo continuare a vincere, noi esistiamo per vincere». Un ruggito, simile a quello che fece Mourinho per compattare la sua Inter prima di vincere il Triplete. Un monito per ricordare a tutti che, soprattutto in ambito internazionale, puoi pensare di essere forte quanto vuoi, ma senza la mentalità giusta prima o poi qualcuno più forte di te si trova sempre. «Voglio ringraziare le persone che sono con me perché nel 2016 non hanno avuto di meglio da fare che scrivere la storia del calcio italiano – ha aggiunto -,ma quest’anno dobbiamo diventare leggenda, e per per farlo abbiamo due percorsi aperti: quello nazionale a quello internazionale. Nessuno ha scritto sei volte di seguito il proprio nome come campione d’Italia, scriverlo come campioni d’Europa significa fare leggenda».
L’ultima coppa dalle grandi orecchie la Signora l’ha sollevata ormai oltre vent’anni fa, il 22 maggio del ’96, con la roulette russa dei calci di rigore vinta all’Olimpico di Roma contro l’Ajax. Secondo Agnelli, però, anziché quella corazzata l’esempio da seguire sarebbe Usain Bolt: sempre in dubbio, sempre in discussione, sempre dato già per sconfitto alla vigilia di ogni nuovo trionfo, ma alla fine, col sorriso in faccia ai detrattori, taglia sempre il traguardo per primo. Certo, di successi, oltre quelli sportivi, la Juve targata Agnelli ne raggiunge molti anche fuori dal campo: fatturato vicino ai 400 milioni, Juventus Stadium sempre pieno, la cittadella dello sport in fase di ultimazione. Ma un’immagine mai così scintillante nell’ultimo ventennio conferisce una competitività che non consente più alibi. Alla Juve, poi, un discorso da condottiero che si rispetti non può prescindere dal mantra bonipertiano «vincere non è importante,è l’unica cosa che conta». E allora, mescolandola sete di vittoria a un certo senso di nostalgia, così parlò Andrea Agnelli: «Come ci insegnano quelli che hanno gestito la Juve prima di noi, sappiamo perfettamente che il trionfo più importante non è quello che abbiamo conseguito ma è il prossimo». In ordine, dunque, la supercoppa italiana a Doha (23 dicembre contro il Milan).