07/02/2017 13:51
IL MESSAGGERO (M. AJELLO) - Il #FamoStoStadio è diventato il tormentone. Dopo Spalletti, e insieme a Dzeko, ecco che scende in campo Francesco Totti. Il suo «vogliamo il nostro Colosseo moderno, una struttura all’avanguardia per i tifosi giallorossi e per tutti gli sportivi» diventa la palla su cui si tuffa Virginia Raggi, in cerca di consenso. «Caro Francesco, ci stiamo lavorando», risponde il sindaco al campione: «FamoStoStadio nel rispetto delle regole. Ti aspettiamo in Campidoglio per parlarne». Pallotta ha mandato in pressing la sua squadra, la Raggi si mette in scia per motivi politici e di affannoso contropiede comunicativo – il calcio fa sempre effetto, anche come arma di distrazione di massa – ma l’abbraccio strumentale per entrambi sembra pieno d’insidie per la società giallorossa. Se il sindaco si aggrappa a uno scoglio solido e popolare, la Roma, questa si appoggia a una giunta claudicante. E offre alla Raggi e ai 5 stelle una coperta lunga, almeno fino alle elezioni politiche probabilmente non vicinissime, sotto cui infilare gli errori politici compiuti e le inadeguatezze amministrative dimostrate e ancora in corso. Comprese quelle che riguardano proprio lo stadio. Che diventa il vorrei ma non posso di Virginia. L’espediente per risalire la china, pur sapendo che l’amministrazione comunale che lei dirige ha appena bocciato, con una relazione tecnica in cui si indicano dettagliatamente tutte le carenze, la realizzabilità del progetto stadio. Definito «ecomostro» dalle associazioni ambientaliste, giudizio condiviso da una larga fetta dei grillini e la cui fattibilità è stata l’altro giorno negata dall’assessore Berdini, lo stadista, con queste parole a proposito degli sponsor privati: «L’hanno presa sui denti».
Il problema è che nessuno ha mai messo in discussione il diritto della Roma al suo stadio. Ma la praticabilità del progetto in quella zona, a Tor di Valle, in quelle condizioni e con tutte quelle incognite. Alla fine, se una fine ci sarà, il progetto partorirà l’ecomostro, a dispetto del piano regolatore? O una costruzione grande solo un terzo rispetto a quella prevista in origine, e senza i tre grattacieli alti 200 metri e l’immensa area di edifici commerciali, alberghi, uffici e ristoranti? Oppure qualche altra cosa? La Raggi che dice «facciamolo nelle regole» dunque fa una plateale inversione a U e la sua mossa vorrebbe accarezzare la città e blandire il popolo giallorosso, pur di salvarsi. Ma la pone davanti a un bivio. O fare contenti i tifosi dello stadio, scontentando l’ortodossia grillina e smentendo la propria predicazione pre e post campagna elettorale. Oppure rischiare il rigetto da parte dei romanisti, pur di ostentare fedeltà al verbo dei grillini, che comunque sulla materia sono spaccatissimi. E’ il cul de sac su cui, pensando di sfruttare le dichiarazioni di Totti, s’è infilata Virginia. Replicando una situazione già creata con il codice etico. Così come quelle regole per salvare la Raggi hanno rappresentato un capovolgimento dell’ortodossia pentastellata in fatto di giustizia, questa piroetta sullo stadio è un’altra abdicazione ai principi della trasparenza e della non compromissione sbandierati in questi anni da M5S. Ieri l’ex premier Renzi ha caldeggiato la realizzazione dell’opera e l’attuale ministro dello sport, Luca Lotti, ha twittato: «Io sto con il #FamoStoStadio». Che non sarà come quello della Juve, appartenente alla società bianconera, ma di proprietà di Pallotta, il quale lo darà in affitto alla società giallorossa per due milioni di euro all’anno. Intanto la Roma, per andare in porta, ha schierato il suo Pupone. Però la Raggi, in questo gioco, rischia un clamoroso autogol.