31/05/2017 14:29
IL TEMPO (G. GIUBILO) - Ombre e luci fin dall’inizio della seconda avventura di Luciano Spalletti sulla panchina giallorossa. Dire «O vinco o me ne vado» è una dichiarazione che appartiene a grossi calibri come Mourinho o come Guardiola, un po’ di cautela non avrebbe fatto male a Spalletti, che sul piano psicologico ha dimostrato di avere molto da imparare. I numeri gli danno ragione, perché la Roma ha colto un piazzamento di prestigio e la qualificazione diretta in Champions League. Però ci vuole altro per conquistare il cuore dei tifosi romanisti. Perché la scintilla della simpatia nei confronti del tecnico di Certaldo in realtà non è mai scattata. Non bastano i buoni piazzamenti, come non basta aver regalato alla squadra un’apprezzabile qualità di gioco per tutta la stagione. Che sul piano psicologico Spalletti avesse dei limiti lo hanno testimoniato i fischi che hanno sottolineato la sua uscita dal campo alla fine di una stagione comunque segnata da risultati positivi. Spalletti ha capito poco gli umori del tifo romano, quando si è scelto come antagonista d’elezione proprio l’eroe del popolo giallorosso, quel Francesco Totti il cui addio al calcio giocato è stato solennizzato da un applauso di sortita che ha coperto ogni altro rumore e qualsiasi tentazione di voce non in linea con gli umori della Curva Sud. Spalletti, insomma, non ha mostrato grande lungimiranza nell’andarsi a scegliere come «nemico» proprio l’uomo più amato da tutti i romanisti e perfino dai rivali, che gli hanno tributato un trionfo senza contrasti al suo passo d’addio.
Non poteva pretendere, Spalletti, di poter condividere con il Capitano il momento della commozione e delle emozioni intense, riservate esclusivamente a un personaggio. A Roma, all’Olimpico, un confronto tra un tecnico già annunciato in partenza e un campione che era stato una leggenda per il calcio romano, non era possibile. E dunque, Spalletti non può meravigliarsi se è stato accompagnato da una sonora fischiata corale al momento di prendere congedo dai tifosi giallorossi per cercare nuove avventure, un’altra panchina per niente comoda come quella di un’Inter da ricostruire per l’ennesima volta e senza neanche il conforto degli impegni internazionali di livello. Restano i numeri significativi che hanno garantito il secondo posto e l’approdo alla massima competizione europea evitando la trappola dei preliminari, che spesso per tante squadre prestigiose si sono rivelati fatali. Lo ha tradito, invece, l’incerto cammino della sua squadra in quella parentesi da dentro o fuori che segna tutte le competizioni a eliminazione diretta in campo internazionale, ma anche in quel derby che ha lasciato ferite profonde nell’animo dei romanisti. Ha imparato poco, Spalletti, dagli errori commessi dalla precedente esperienza romana, e non può lamentarsi se alla fine non ha trovato accanto a sé gli amici che avrebbe voluto, una volta logorato anche il rapporto con la stampa, oltre che quello con la parte più viva e sanguigna della schiera dei tifosi. Raccoglierà un’eredità nonostante tutto abbastanza pesante Eusebio Di Francesco, che tuttavia ha già dimostrato di avere doti caratteriali importantissime e che l’ambiente romanista conosce bene per averne fatto parte con ruoli da protagonista.