15/06/2018 14:52
LA REPUBBLICA (M. FAVALE) - «Io il parere lo chiedo ma poi a quel punto, qualsiasi sia la risposta, ci si adegua. Siete d’accordo?». «Sì», risposero quasi in coro i consiglieri M5S riuniti nella sala delle Bandiere alla domanda della sindaca. Peccato che quel parere richiesto da Virginia Raggi all’Avvocatura capitolina sia praticamente sparito, rimasto nei cassetti da 14 mesi, dal febbraio 2017 quando, tra il 22 e il 25, matura la clamorosa svolta in casa M5S: lo stadio che il Movimento non voleva fare (il 22 è Beppe Grillo a dire «no a Tor di Valle, magari altrove») diventa la bandiera da sventolare dopo lo stop alle Olimpiadi. Sono giornate convulse, estenuanti, con la sindaca che finisce addirittura in ospedale, al San Filippo Neri, a causa di forti dolori addominali.
«Non è una vita facile», dirà il marito Andrea Severini in quelle ore. Perché quel sì all’impianto, grazie all’accordo raggiunto con la Roma e la Eurnova di Luca Parnasi che prevede il taglio drastico delle cubature (via le tre torri di Liebeskind) e delle opere pubbliche, non è facile da far digerire a una maggioranza spaccata al suo interno e tenuta all’oscuro su diversi passaggi. A gestirli, da qualche settimana, dopo la bufera seguita all’arresto di Raffaele Marra, sono arrivati in Campidoglio Adriano Bonafede e Riccardo Fraccaro, allora deputati e oggi ministri, il primo della Giustizia, il secondo dei Rapporti col Parlamento col compito di “stabilizzatori” della situazione. A inizio febbraio, invece, compare anche Luca Lanzalone, il “facilitatore”, il “problem solver”, il “mister Wolf” della questione stadio. «Dovete fidarvi — dice Grillo ai consiglieri durante una riunione in quei giorni, come riportò allora il Fatto quotidiano — una trattativa così delicata non possono gestirla in 29, sarebbe folle. Valuteranno altri, voi comunque voterete la decisione finale».
Tra le cose da valutare, c’è anche quel parere che Virginia Raggi (su pressione di Cristina Grancio, la consigliera “dissidente” che un anno dopo, nel 2018, verrà espulsa dal M5S) chiede all’Avvocatura capitolina: è possibile dire no allo Stadio a Tor di Valle senza che sul Campidoglio e sui consiglieri piovano ricorsi milionari da parte della Roma e di Parnasi? Ufficialmente la risposta non si saprà mai, perché, a sorpresa, la prima cittadina decide di secretare i risultati di quella richiesta che, dalla mattina alla sera, diventa imbarazzante. In quei giorni di 14 mesi fa, però, il contenuto di quel parere che, forse, avrebbe cambiato l’atteggiamento della maggioranza trapela: sì, la delibera di pubblica utilità approvata dalla giunta Marino nel 2014 può essere annullata. Ma, appunto, quel documento resterà nel cassetto al contrario di un altro, preparato dal gruppo M5S alla Regione Lazio e controfirmato da un “vate” dei 5 Stelle, quel Ferdinando Imposimato, già presidente onorario della Suprema Corte di Cassazione, che l’M5S candidò alla presidenza della Repubblica nel 2015. Quel parere è ancora più pesante di quello dell’Avvocatura perché sulla delibera per lo Stadio a Tor di Valle avanza profili di incostituzionalità.
Dell’atto se ne parla in una riunione di maggioranza in Campidoglio, presente proprio Lanzalone che, raccontano oggi i presenti, avverte: «Non possiamo prenderlo in considerazione, altrimenti lo stadio non si potrà fare». Un suggerimento perentorio arrivato da un uomo che godeva, evidentemente, della fiducia dei vertici del Comune e del M5S. Un contributo decisivo alla svolta che matura a fine febbraio quando arriva il sì definitivo al progetto: da “no allo stadio” si passa a “uno stadio fatto bene”. Un boomerang, alla luce dell’inchiesta che fa tremare il Campidoglio.