29/08/2018 17:09
RIVISTAUNDICI.COM (F. RASO) - In una scena inizialmente tagliata de La Grande Bellezza, un vecchio regista italiano, dopo una carriera lunga trentadue film, immagina di girare il proprio ultimo lavoro, come testamento intellettuale della propria opera. Il messaggio che vorrebbe lasciare ai suoi spettatori è un invito a rispettare la loro curiosità, a non frenarla per pigrizia o scetticismo. La protagonista del film, una ragazza i cui occhi cambiano colore ogni qual volta vengono chiusi e riaperti, è metafora del primo incanto visivo nella vita del regista: la vista del primo semaforo installato a Milano, all’incrocio tra Piazza del Duomo e via Torino, in mezzo a una gran folla curiosa, radunata a guardarlo. Paolo Sorrentino usa un semaforo per trasmettere uno dei significati del suo capolavoro; Javier Pastore, uno dei trequartisti puri più talentuosi di questo decennio, fa lo stesso per spiegare il proprio calcio: «Si tratta di avere coscienza di distanza e tempo», ha risposto a El País, che lo paragonava a Iniesta per una finissima capacità comune di percepire la presenza dei marcatori senza vederli. «Passo la vita a guardare ciò che mi circonda: quando guido, so in che momento il semaforo diventerà rosso. La strada di casa la faccio sempre trovando quasi tutti i semafori verdi». Vedere giocare il Flaco è una forma di incanto visivo perché, come ogni gran trequartista, modella la tecnica in giocate magnetiche e, come dice Ángel Cappa, trasforma la realtà.
Ángel Cappa è un allenatore argentino, psicopedagogista, filosofo, ex vice di Menotti e Valdano tra Barcellona e Real Madrid, ma soprattutto teorico del calcio propositivo. In quasi trent’anni di carriera tra alti e bassi ha combattuto apertamente la cultura resultadista del fútbol, colpevole, a suo dire, di aver barattato il piacere di giocare con i punti. Il dibattito ideologico sul gioco, in Argentina, ha tenuto banco dalla seconda metà del Novecento in avanti, riproponendosi durante il picco di ogni esperienza interessante: nel 2009, Cappa tornò a far sentire la propria voce grazie al suo Huracán, una squadra libera e avventurosa, che pur perdendo il campionato all’ultima giornata tra mille polemiche contro il Vélez di Ricardo Gareca, giocò il calcio migliore del torneo. Javier Pastore esplose in quella squadra a vent’anni, mostrando uno stile di gioco sfrontato, in perfetta sintonia con il modo di concepire il calcio del suo allenatore: «Dico sempre ai miei giocatori di rischiare in campo, di non aver paura di commettere un errore o di esibire il loro talento. Con Javier non ho dovuto insistere», ha raccontato Cappa a SoFoot, ormai sette anni fa. «Addirittura ho dovuto dirgli che un tunnel non sempre è utile, che non è furbo scommettere un milione di dollari per vincerne uno. È un giocatore sfacciato e coraggioso». Il rapporto tra l’allenatore e Pastore è proseguito per corrispondenza, dopo che l’enganche è stato comprato dal Palermo: a distanza, Cappa continuava a suggerirgli accorgimenti per essere più efficace in campo. La spinta decisiva alla prima fase della sua carriera, però, la diede Delio Rossi, impostando la squadra sul 4-3-1-2 e confermando, quattro anni dopo l’esplosione di Mauro Zárate nella sua Lazio, di saper creare i presupposti migliori per attutire l’impatto in Serie A dei talenti più anarchici. In due stagioni di piena libertà toccò vette di gioco altissime, fece piangere Zamparini, segnò una tripletta in un derby contro il Catania, arrivò in finale di Coppa Italia e, soprattutto, attirò le mire del Paris Saint-Germain, in piena urgenza di riscrivere la propria storia.