05/10/2018 12:56
IL MESSAGGERO (S. CARINA) - Per un periodo Aurelio Andreazzoli, avversario domani della Roma, a Trigoria fece addirittura tendenza. La percentuale che nel 2013 chiese a tutte le componenti della società per permetterle di tornare in alto («Se ognuno di noi darà lo 0,2%, questo 0,2% sommato agli altri ci farà raggiungere le vittorie»), venne preso alla lettera dai dirigenti. A tal punto che, da Zanzi a Baldissoni, passando per Baldini, Fenucci e Sabatini (ma anche tutti i dipendenti riuniti nella sala conferenze di Trigoria) si presentarono qualche giorno dopo indossando il cappellino ispirato alle parole dell'allenatore. Aurelio, meravigliato ma tronfio, si lasciò andare ad una previsione nefasta: «Questo slogan avrà un buon seguito». Si sbagliava. Perché la sua avventura sulla panchina giallorossa non ebbe «un buon seguito». Anzi, si concluse con quella che il tifoso romanista - per chi per motivi anagrafici non ricorda la retrocessione nel lontano 1950-51 - considera il punto più basso della storia del club: la sconfitta nella finale di coppa Italia contro la Lazio, 26 maggio 2013. Probabilmente fu proprio in quel 1 marzo del 2013 - il giorno dell'annuncio dello 0,2% - che Andreazzoli iniziò a perdere la panchina giallorossa. Ossia, quando si convinse che quello 0,2% poteva diventare - come poi dichiarò in modo reiterato nelle conferenze stampa seguenti - una percentuale da far lievitare di settimana in settimana a favore di una sua conferma. Da Calimero della panchina, ben voluto e visto con simpatia da squadra (Totti lo conferma nel suo libro, raccontando quando Aurelio gli chiese di aiutarlo) e addetti ai lavori, il tecnico si trasformò lentamente in una sorta di Icaro dei tempi moderni. Quasi che di colpo, i dodici anni a lavorare bene nell'ombra dovessero essere cancellati e dimenticati per far posto a quei cento giorni del 2013 quando, con Zeman esonerato, divenne traghettatore.
L'INCOMPRESO - Una metamorfosi che ancora adesso non gli fa capire cosa ha significato per la tifoseria della Roma il 26 maggio. In un'intervista di qualche mese fa, rilasciata a La Repubblica, Aurelio è tornato sul periodo giallorosso: «Mi hanno massacrato perché in quella gara abbiamo preso un palo e loro hanno segnato su una mezza smanacciata di Lobont. Nessuno però ricorda i miei numeri sulla panchina». Può darsi, ma per un semplice motivo. Perché non cambiarono nulla nelle sorti del club. Al netto della debacle nel derby, Andreazzoli racimolò 28 punti (8 vittorie, 4 pareggi e 3 sconfitte) nelle ultime 15 giornate, passando dalla media di Zeman di 1,5 punti a gara ad una pari a 1,9 punti per match. Trend leggermente migliore che tuttavia non portò a nulla. L'allenatore di Massa prese a febbraio una squadra ottava e fuori dalle Coppe e la lasciò sesta, fuori dalle Coppe, a 4 punti dall'Udinese e con l'onta del derby perso in finale di coppa Italia. Ma c'è di più. Perché il suo compito, all'epoca, quando venne promosso in prima squadra, più che di salvare una posizione nell'Europa che contava (la Champions era ormai lontanissima), era quello di rivalutare una rosa che rischiava di perdere valore. Perché se a Zeman veniva riconosciuto il merito di aver lanciato Marquinhos e di aver fatto esplodere Lamela, lo si accusava, off record, di aver deprezzato i vari De Rossi, Stekelenburg, Pjanic e in parte Osvaldo. Posto fine al dualismo con Tachtsidis, tuttavia il rendimento di Daniele in quella stagione non migliorò. Stekelenburg, lasciando il finale di campionato a Lobont, diede ragione a Zeman, che lo accusava di avere una soglia del dolore molto lieve che lo rendeva indisponibile per intere settimane. Lamela, dopo l'addio del boemo, sparì dal campo con Pjanic e Osvaldo addirittura esclusi dalla finale di coppa Italia. L'italo-argentino, al quale venne preferito Destro (pupillo dell'ex ds Sabatini all'epoca, ndc), non la prese benissimo. Dopo il battibecco in campo con il tecnico, l'attaccante ci andò giù duro su Twitter: «Facevi più bella figura se ammettevi di essere un incapace, vai a festeggiare con quelli della Lazio». Parole che chiusero la sua avventura in giallorosso. E quella di Aurelio, che ancora oggi, dopo 5 anni, non si capacita perché «nessuno ricorda i miei numeri sulla panchina della Roma».